Grazia Rosa Centra. Insegnate di Lettere nelle scuole medie e superiori ora in pensione. Ha pubblicato due romanzi ed un racconto. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni; nel 2013 vince la Farfalla d’oro per la prosa e nel 2016 la Libellula d’oro sempre nella sezione prosa. Vive a Foggia.
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
(Sono un essere umano, niente mi è estraneo
di ciò che riguarda la condizione umana)
Era un mercoledì. La telefonata degli amici bridgisti. La corsa pazza verso l’ospedale. II respiro affannoso degli alberi in fuga. La voce urlata del vicino Adriatico. nella notte senza stelle.
Erano trascorsi quasi due anni da quel mercoledì. Maggio era ritornato e se n’era andato, ed era di nuovo maggio. Il profumo delle rose e quello dell’erba umida nel mattino.
Indossa il vestito bianco, amore, ti prego, ed entra nel quadro.
“Che cosa devo fare!?”.
“Mettiti li, vedi? Accanto al “Cantinone” di Martucci; un po’ più a destra, come se uscissi dalla porta socchiusa della cantina”.
CLIC.
“Mi farai prendere per ubriacona, io, che sono quasi astemia!”.
Un’ombra negli occhi. Lei si muove, apre il balcone, il sole si allunga sul pavimento di marmo. Lui le si accosta, una mano sulla spalla, le rose nel piccolo giardino sotto di loro. Per poco, silenzio.
“Allora? Dove andiamo oggi? Andiamo a Montevergine?”.
Eco di ferite lontane. Lei, stupita, si volge a guardarlo. Lui la evita, spinge lo sguardo oltre la verde magnolia con i fiori bianchi.
“Non è necessario”, sussurra lei, la voce ridotta a un soffio, “lontananze dimenticate, mai risalite, per me …”.
Lui le afferra la mano, gliela stringe. Lei intende, si ferma.
Primo anno di matrimonio: stanno scherzando e nello scherzo si fraintendono.
La loro unica, vera lite. La porta male accompagnata, il rumore della macchina che parte, l’attesa umiliante, l’ora lunga, interminabile, il ritorno a tarda sera. Era stato a Montevergine, e ora voleva ritornarci a Montevergine, con lei.
Lui abbassa la basculante, lei pronta, con fare distratto, apre lo sportello e si siede al posto di guida. “Allora?”. Non insiste, passa sul sedile accanto.
La macchina sfreccia sull’asfalto rovente. Troppo veloce. La sfida è evidente. Chi vuole convincere, lei o se stesso?
Ora il santuario, che sembra addossato al verde Partenio protettore dalla doppia cima, li domina dall’alto. “Eccolo!”. “E’ magnifico”, lei dice, “maestoso!”.
Lui è contento.
“Dovevi vederlo, non potevi non vederlo”.
Ora la macchina procede lenta sulla strada che sale su per gli stretti tornanti tagliati nella roccia viva. Dal lato dello strapiombo, vallate, villaggi, fughe di colli ricchi di ombrellifere, querce, aceri nascenti. Sullo sfondo il Vesuvio e Capri sospesa tra cielo e mare.
Appare all’improvviso l’ampio piazzale col suo secolare tiglio solitario. La Scala Santa. L’istinto frenato di salire. Nella penombra della chiesa odore acre di ceri, l’immagine della Vergine dai grandi occhi profondi, e una specie di lento salmodiare, di parole frantumate, di tacite richieste, come una musica lievissima di sottofondo che non disturba il pregare, ne sgomenta il silenzio. Poi di nuovo il sole.
Lontano, sulla via del ritorno, un piccolo ristorante. I fiori sul terrazzo coperto da stuoie, i tavoli quadrati, i tavoli rettangolari, le tovaglie bianche. Dopo il pranzo lei prende caffè, sola. Lui, poco distante, si intrattiene col gestore. E seduto su un alto sgabello, una gamba penzoloni, il gomito destro poggiato sul bancone, vicino alla cassa, il bel capo reclinato sulla mano aperta a ventaglio. Il gestore parla, ride, gesticola. Marco ascolta, Marco guarda come da qualche tempo guarda tutto quello che prima non riusciva a vedere.
“Ha il cuore negli occhi il mio Marco”, dice lei intenerita. Le lacrime accorrono. A difesa gira il capo per non più vedere.
“La cassiera è sua moglie e sono tutti figli suoi i camerieri. Non è meraviglioso?”.
“E che altro ti ha detto?”.
“Che ce n’è un altro che fa il car a Orvieto >>.
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sussurra lei, piano.
“E’ Plauto?”.
“No, è Terenzio, ma avresti potuto scriverlo tu, Marco, perché tu sei come lui, come lui!”.
Marco la guarda in silenzio. Malinconia vigilata negli occhi. Poi si siede accanto a lei, le disserra le dita e affonda il viso nelle sue mani.