“Occorre sputare sulla tradizione, su Hegel e su Marx e su Freud, e se serve anche su Shakespeare, perché ogni trasformazione del pensiero è stata nei fatti un regolamento dei conti fra uomini sulla pelle delle donne”. E poco più avanti: “Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte, noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo”.
Queste frasi estremiste e battagliere sono contenute ne Il Manifesto di un gruppo che si chiamava “Rivolta femminile”. Il testo è uscito esattamente 50 anni fa. Il gruppo è sciolto da decenni, ma ritrovarlo, insieme a tanto altro, in un volume firmato da una storica che 50 anni fa era appena nata, mi ha sorpresa e intenerita.
Mi sono detta: «Dunque qualcosa è rimasto di tutto quello che ho gridato da ragazza. È rimasta Vanessa Roghi, per esempio, autrice di La parola femminista». Certo, lei, classe 1972, aveva la mamma femminista e, non a caso, alla mamma femminista, Irma, è dedicato l’immane sforzo teorico e letterario cui si è sottoposta: dar conto del percorso della parola ‘femminista’ attraverso mezzo secolo, senza mai dimenticare di inserire, con lodevole sincerità, anche sé stessa, nel quadro del mondo.
Lei, Vanessa. Bambina in piazza con la mamma, ragazza in conflitto con la mamma e, infine, donna grata alla mamma e alle sue compagne d’epoca che hanno lottato anche per lei. Per loro.
C’è tutto, in queste 250 pagine: dalle origini alle polemiche che sempre dividono il fronte del movimento femminista. Dalla seconda ondata, quella del femminismo della differenza – cavalcata da tante (e da me) negli anni Settanta del secolo scorso -, al riflusso degli anni Ottanta in cui una sorta di diritto alla fatuità ha travolto e seppellito l’impegno e la parola ‘femminista’ è diventata quasi un insulto, fino all’attuale femminismo dell’uguaglianza, in cui ogni donna dovrebbe essere imprenditrice di sé stessa e colpire con una solitaria e potente zuccata il famoso tetto di cristallo, salvando sé stessa dal retrobottega in cui hanno sempre vivacchiato le donne, ma lasciando ammuffire senza pietà tutte le altre. È un fiume carsico il femminismo, Roghi lo sa e lo racconta molto bene: vede che si inabissa e poi rispunta, lo guarda scorrere fra le asperità di un paesaggio scolpito in forme aguzze e aspre, per scomparire poi, ciclicamente, dalla superficie e continuare a lavorare sottoterra, segreto, nascosto, ma capace, con la forza umile della ripetizione, di modificare il territorio delle relazioni fra gli uomini e le donne, demolendo i “ruoli di genere” con un movimento lento ma inarrestabile.
Difficile riassumere La parola Femminista, è talmente denso di citazioni da provocare un leggero senso di smarrimento. Io l’ho letto una prima volta, in fretta, con il piacere di veder riemergere pezzi della mia vita intellettuale e politica, poi l’ho riletto con una matita in mano e ho incominciato a sottolineare. È stato un viaggio affascinante nel territorio, ahimè poco esplorato, del pensiero delle donne sul proprio essere donna in una società fondata sulle implacabili leggi del patriarcato. È stata la gioia di ritrovare, integra, una sensazione di mezzo secolo fa, il senso di un doloroso privilegio: noi portiamo nel corpo il dispositivo che produce esseri umani. Abbiamo corpi complessi e perfetti. Eppure siamo sole di fronte a questa diversità mai accettata, mai considerata come merita.
Viviamo, oggi, un clima opposto a quello degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso: la parola ‘femminista’ è diventata popolare. Tutte si dichiarano femministe. Dior ha messo sul mercato una semplice maglietta bianca con la scritta “We should all be feminists”. Traduzione: “Tutti dovrebbero essere femministi”. Prezzo: 750 dollari. Ve la comprereste? Io no. Eppure, oggi anche gli uomini si dichiarano volentieri femministi. Una avanguardia di maschi sta facendo i conti con il grande cambiamento delle femmine della specie. Ma per loro non è facile, ammettiamolo. Perché, vedete, il punto è esattamente questo: noi donne siamo cambiate molto, sono cambiate anche quelle che non sanno di essere cambiate, sono cambiate quelle che sono nate quando tutto era già finito ma, istintivamente, credono in sé stesse, non accettano alcuna subalternità, non vogliono appassire ai fornelli. Vogliono (e sanno) decidere loro del proprio corpo.
Gli uomini sono cambiati meno delle donne, perché sono stati, e sono tuttora, il genere dominante. Hanno goduto e godono ancora di parecchi privilegi. A parità di mansioni guadagnano di più, non vengono considerati scaduti a 50 anni, non sono obbligati a restare giovani e belli per tutta la vita come noi. Hanno facile accesso al prestigio che le donne conquistano con enorme difficoltà, eccetera eccetera. Del resto, è ragionevole: si cambia sulla spinta di un disagio, di un malessere, di un bisogno. Se non soffri resti come sei.
Io, se fossi nata uomo, mi terrei ben stretti i miei privilegi oppure deciderei di spartire la torta con l’altra metà del Cielo? Forse mi godrei la mia vita da dominatore (almeno ipotetico), ma certo non prenderei a coltellate la ragazza che mi vuole lasciare. E voi?