Il film si intitolava L’amour e i protagonisti erano una coppia di anziani insegnanti di musica, Georges e Anne. Due intellettuali, due artisti che trascorrevano le loro giornate di ottantenni in una bella casa scambiandosi, con dolcezza e ironia, ricordi e progetti. Niente melassa, per carità, ma tutto molto rassicurante, finché, una mattina, Anne versa il tè nel posto sbagliato, dove non c’è la tazzina, e non se ne accorge. È l’inizio di un declino inarrestabile che trasformerà lei in un vegetale senziente e lui in un assassino per amore. Il regista, il pluripremiato Michael Haneke, rifiuta qualsiasi censura e mette in scena una sofferenza universale: il declino del corpo, il perdurare dell’affetto. Il film risulta perciò sadicamente commovente. Quando siamo usciti dal cinema, io e mio marito eravamo stravolti. Abbiamo detto la prima parola la mattina dopo. Dunque è questo, verso la fine della vita, l’amore?
Sì, certo, il sentimento che ti spinge ad abbreviare la sofferenza della persona a cui vuoi bene, è amore. È amore quello che ti fa rischiare la galera per porre in essere il suicidio di cui la persona amata è ormai incapace. Ma non tutti gli anziani mariti appartengono alla categoria degli arcangeli terminali. E i femminicidi per compassione non sono frequenti come si potrebbe credere.
Capita che i caregiver siano semplicemente stufi di convivere con una persona bisognosa di tutto. Capita che la persona bisognosa di tutto sviluppi una sorta di selvaggio rancore che impedisce ogni forma di riconoscenza. Ma capita anche che una lunga e dolorosa reciproca antipatia, covata e repressa per tutta la vita adulta, degeneri in violenza (i matrimoni longevi contengono questo rischio).
Pochi mesi fa una donna è stata uccisa a colpi di mazza da golf dal marito: aveva 67 anni. Il marito l’ha colpita in casa, l’ha finita in strada. L’ha fermato da sola e coraggiosamente una poliziotta, nemmeno in servizio: donna, giovane.
Il dato è inquietante: «Il rischio di femminicidio fra le donne che hanno almeno sessant’anni supera di oltre il 31% quello delle donne della fascia d’età 10-59», così scrive il sociologo Luca Ricolfi che, con la Fondazione Hume, ha elaborato i dati forniti dall’associazione femminista “Non una di meno”.
La smania di possesso del maschio nei confronti della giovane donna che gli sfugge (e sarà di un altro uomo perché ha tutta la vita davanti) non è più l’unico scenario possibile.
La gelosia, l’orgoglio ferito, l’invidia per la libertà che le giovani donne, oggi, per fortuna, sventolano come una bandiera rosa da difendere a tutti i costi, non sono più i soli sentimenti coinvolti nella genesi di questi fatti di sangue.
Dal 2020 i femminicidi sono in aumento, tanto che molti ipotizzano una relazione con la clausura da Covid, quei mesi in cui, per molte, il nido d’amore, in assenza di vie di fuga, si è rivelato una trappola mortale. Analizzando il dato di questa crescita esponenziale, l’elemento più significativo riguarda proprio l’età delle vittime: poco meno della metà aveva più di sessant’anni. Hanno un età compresa fra i 71 e i 90 anni il 25% delle donne uccise per mano di un uomo in ambito famigliare.
Quasi sempre si tratta di un ex marito o un marito, certe volte di un figlio. Vorrei provare a riflettere su questo dato.
Mi libero subito delle domande più odiose: uccidono donne anziane perché le donne anziane non hanno nessun valore di mercato, nemmeno più quello di piacere agli altri uomini che alza le quotazioni delle giovani? Le uccidono come si schiaccia una formica, con facilità, distrattamente? E qual è l’età degli assassini?
Quasi sempre la stessa delle vittime, spesso qualche anno di più. Il presunto assassino della settantaduenne Margherita Ceschin, per esempio, di anni ne aveva 80. Ma pare che fosse il mandante, non l’esecutore materiale. Forse, dopo una certa età, brandire personalmente un coltello da cucina e piantarlo nella carne di tua moglie risulta faticoso. Ma non era, la vecchiaia, il tempo della saggezza e dell’empatia? Il tempo in cui la serenità si avventa su di te e ti pervade magnanima perché “ogni passione è spenta”?
Evidentemente il prolungamento dell’aspettativa di vita ci costringe a restare ancora un po’ sul campo di battaglia, là dove la libertà delle donne cozza contro le derive di un patriarcato morente e perciò più violento.
Ma se è vero, come è vero, che l’inferiorità fisica femminile e la supremazia muscolare maschile sono la solida base materiale del femminicidio, perché non armare la mano delle donne? No, non di armi da fuoco, nessuna soluzione alla ‘texana’, ma spray urticanti sì. Gratis, distribuiti ovunque, per tutte. Ma soprattutto per le anziane.
Si è spento da poco più di un anno il sorriso fiducioso della ventiduenne Giulia Cecchettin. Lo vedo ovunque. Mi perseguita anche di notte. Era un sorriso di bambina, carico di vita. Ha commosso tutta l’Italia, quel sorriso, una commozione bipartisan che ha fatto intervenire insieme perfino Elly Schlein e Giorgia Meloni. Una commozione bellicosa e femminista che ha riempito le piazze di una folla intergenerazionale, dove le madri e le nonne marciavano insieme alle figlie e alle nipotine.
Era il 25 novembre dell’anno scorso. È di nuovo novembre. Scenderemo di nuovo in piazza. E poi?