Era celebrato ossessivamente dalla mia famiglia d’origine, il Natale. Nascondevano i regali eccedendo in precauzioni consapevolmente grottesche. Era tutto un crescendo di attesa. Erano disprezzate le famiglie prosaiche che si accordavano, comperavano su richiesta, mettevano sotto l’albero un golf o un profumo con il cartellino del prezzo. Il regalo doveva essere il frutto della conoscenza dei desideri dell’altro. Doveva essere esatto e imprevedibile, fonte di gioia. Finché eravamo bambine, io e mia sorella, era un gioco solenne. Fingere di dormire, ascoltare i genitori muoversi con cautela in salotto. E la mattina del 25 alzarsi prestissimo e trovare i pacchetti sotto l’albero.
Fingere di credere. Credere. A Babbo Natale, certo. Ma soprattutto al rapporto che lega pedagogicamente fra loro, il merito e il premio. Se siete state buone riceverete i doni, se siete state monelle no. Al massimo carbone dolce.
Ricordo tutto con precisione, il rumore della carta mentre aprivi i pacchetti. La carta lucida. Le coccarde. Ricordo il teatro della sorpresa, la recita della gratitudine, anche se non sempre il dono corrispondeva alle attese. Gli occhi degli adulti fissi su di noi, a godere ogni sfumatura della nostra prevista gioia di bambine. La mattina era lunga e andava via così, a scartare, ringraziare, abbracciare. Seguiva un lungo pomeriggio noioso, il pranzo troppo pesante, il gioco che già si smontava e si rompeva. Trovare difetti alle bambole. Il pomeriggio era un supplizio.
La consumazione del piacere è molto meno allegra dell’attesa.
Al trascorrere di ogni anno, il Natale, sempre di più, appariva come una tappa obbligata del rapporto con la famiglia d’origine, per me e per mia sorella, adulte.
È stato di nuovo bello da madri, io e mia sorella, con mio figlio bambino e sua figlia bambina. E i nonni a guardare due generazione di figli che scartavano regali. Di nuovo, io e mia sorella, ci impegnavamo a recitare la sorpresa. I nostri erano due bambini felici, anche se più presto increduli dei loro genitori da piccoli. Poi, il 10 dicembre del 1993 mia sorella è morta.
Sua figlia aveva 11 anni, mio figlio 14. Il Natale del 1993 è stato il più infelice della mia vita. Non l’abbiamo cancellata, la cerimonia, ma è diventata la cerimonia dell’addio. All’infanzia. All’attesa. Alla gioia intrecciata senza tempo e senza ragionamento. Ho recitato ancora un po’, per loro, per mio figlio e per la figlia di mia sorella che ho, pochi giorni dopo, adottato. Ho recitato attesa e sorpresa ma senza convinzione. Il pranzo di Natale è il momento in cui, a tavola, si contano i posti vuoti. Ormai, i posti vuoti sono tutta la mia famiglia d’origine. Per ultimo mio padre, dodici anni fa. Pensavo che avrei provato una sorta di liberazione. Non credo né in Dio né nello shopping. E allora basta Natale, no? No. Non mi manca la festa. Mi manca la vigilia.
Mi manca l’attesa, il rituale, quel dolce e assurdo fingere di credere.
Non mi piace andare per negozi, in quella ressa di acquisti obbligati, per dovere sociale, per non presentarsi a mani vuote a pranzi e cene a cui non hai voglia di andare. Certe volte mi apposto in un negozio e guardo le mani allungarsi verso oggetti inutili, di poco valore. Sono quelli che, nell’atto del porgerli, saranno definiti ‘un pensierino’. E un Rolex che cos’è? Un pensierone?
Lo so, sono diventata acida. Confesso che da quel lontano Natale del 1993, quando il Natale andò in scena lo stesso, e la bambina di mia sorella mi consegnò con un sorriso difficile da dimenticare, il grande quaderno con la copertina ricamata a mano che mia sorella aveva preparato per me, da quel Natale di 30 anni fa, è diventato difficile, per me, festeggiare. È diventato difficile anche, o forse soprattutto, per l’ormai quarantaduenne bambina rimasta orfana quel giorno. E per tutti noi? È facile fare festa mentre, non molto lontano da casa nostra, muoiono migliaia di persone?
Si può continuare a incartare regalini per i nostri figli e nipoti mentre ogni giorno muoiono centinaia di bambini in Palestina, in Libano, in Israele, in Ucraina? Riusciremo, dopo tutti questi mesi di morti annunciate e commentate sempre più rapidamente, ad abbracciarci e baciarci sotto l’albero di Natale, acceso di palline colorate?
Il pranzo sarà consumato in silenzio perché, fra i commensali, ci sarà certamente qualcuno che ti chiama “putiniana” se metti in dubbio la cristallina innocenza di Zelensky, che ti considera cretina perché vuoi la pace, che ti dà dell’antisemita perché critichi la politica di Netanyahu. Viviamo tempi di schieramenti feroci, niente più del mondo di oggi è lontano dal presepe. E la pace in terra, gli uomini e le donne di buona volontà, quando potranno gustarla e godersela e lavorare per mantenerla?
Io non la vedrò, spero che abbiano questa fortuna almeno le mie nipotine. E non soltanto, come in una recita ormai logora, nel giorno del Santo Natale.