Marialuisa Casiraghi.
Ha preso parte a più concorsi letterari tra i quali: “Le donne si raccontano” – 2011, vincendo il primo premio a Sassari; “La donna racconta” – 2012, vincendo la menzione d’onore a Firenze, al Concorso di poesia “Mariuccia Ruiu Dessì” V^ VI^ e VIII^ edizione 2014-2016-2020 e nel 2020 al Concorso “Contos – racconti della Sardegna” I^ edizione e al Premio Letterario “Urban Jungle”, entrambi indetti da Cartarica edizioni e con la pubblicazione dei racconti nelle antologie dei due concorsi. Partecipa al Concorso 50&Più per la sesta volta; nel 2018 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Sassari.
La ragazzina aveva danzato leggera ed aggraziata avvolta nel candido tutù sul palco di quel teatro famoso che aveva sempre sognato di visitare sin da bambina. Interpretare l’elaborata coreografia l’era costato gran impegno e parecchia concentrazione, ma l’affiatamento del gruppo l’aveva sostenuta. Con eleganza s’era poi dovuta scostare dal corpo di ballo e volteggiando con agilità si era esibita in varie sequenze di passi e piroette. Animata dalla passione aveva recitato seguendo la musica come un fiore delicato trasportato dal vento. Lo sguardo rivolto alla platea e l’espressione intensa del viso avevano ammaliato gli spettatori. Era riuscita a non farsi sopraffare dall’emozione durante quel breve assolo che avrebbe potuto cambiare completamente il suo destino. Lo scintillio delle luci, gli applausi, l’ovazione del pubblico le avevano fatto credere d’aver toccato il cielo con un dito. E così era stato. I giornali che avevano parlato dell’evento avevano scritto il suo nome in evidenza e le avevano regalato una recensione lodevole dichiarando che sul palcoscenico aveva danzato con la delicatezza e la flessuosità di una libellula. Le qualità di quell’insetto le appartenevano fin dall’infanzia e sua madre aveva sempre pensato che fossero un dono speciale per una bimba piccola ed esile. Tuttavia per entrare nella scuola di danza aveva dovuto mostrare oltre alle doti fisiche, talento, costanza e dedizione. I tanti sacrifici erano stati ripagati con una discreta fama e un meritato successo. Quel periodo felice e favorevole era stato interrotto bruscamente un giorno di fine febbraio in cui, improvvisamente, la vita di tutti era cambiata e la sua era stata stravolta. Era diventata invisibile. Tutto era stato annunciato, ma nessuno aveva voluto crederci fino in fondo finché non era stata guerra. Vivere quell’inaspettata situazione aveva comportato sentire la propria casa tremare, prendere una borsa con le prime cose che capitavano a portata di mano e scappare nei rifugi. Goffa, infagottata in strati d’abiti per non cedere al freddo, della leggiadria e dell’eleganza di prima non mostrava più traccia. Seduta sulla terra nuda, addossata al muro d’un umida cantina aveva più volte versato calde lacrime trattenendo i singhiozzi. Nei meandri del sottosuolo, s’era ritrovata circondata da una misera umanità che della fulgida libellula non sapeva nulla e certamente non le importava affatto. Spesso, durante le esplosioni sopra il rifugio, s’era riconosciuta nei volti dei vecchi ammutoliti e negli sguardi delle altre donne con o senza figli appresso. Aveva cercato in quelle presenze fragili, ma vive, oltre l’apparenza, la sostanza dell’essere e il contenuto inafferrabile dei loro pensieri. La prossimità non aveva generato vera conoscenza, tuttavia alcune relazioni s’erano consolidate più di altre. Guidata dai fili oscuri che legano le persone nelle avversità, aveva iniziato a seguire nuove amiche nella costruzione di barricate con sacchi di sabbia a protezione della città. S’era pure improvvisata staffetta per accompagnare gli sfollati in salvo, oltre il confine dello Stato e tornare poi con il pulmino carico di rifornimenti. Lavorare dietro le quinte le era servito a sentirsi utile e a reagire allo smarrimento. Nel susseguirsi dei giorni di conflitto, lo scambio d’informazioni aveva alimentato la rabbia e il rancore. Ciò che faceva, a un certo punto, non le sembrò più sufficiente, la libellula doveva trasformarsi in mantide. Da preda doveva diventare predatore. Come tante altre donne aveva impugnato le armi, indossato la tuta mimetica, il giubbotto antiproiettile e imparato a combattere. Insieme ad altri uomini e donne aveva organizzato posti di blocco e la fortificazione di alcuni avamposti. L’idea di proteggere la sua casa dagli invasori fugava la paura. Si ripeteva continuamente di essere in grado di gestire l’ansia e minimizzare i rischi per sé e gli altri. Durante quell’attacco il rumore dei missili e delle esplosioni l’avevano assordata. La puzza di bruciato e l’odore acre le avevano seccato la gola. Uno scroscio di macerie aveva alzato un nugolo di polvere che come nebbia spessa aveva celato lo sguardo e bruciato gli occhi. Aveva urlato ai compagni lontani, brancolanti come sagome tra i fumi e la caligine. Non aveva ricevuto risposta e per la prima volta s’era trovata sola. Avvertì una fitta alla gamba destra. Perse l’equilibrio e come un candido cigno trafitto da schegge impazzite rimase intrappolata tra i calcinacci d’una casa abbattuta. Dopo il gran trambusto ci fu un silenzio irreale. Doveva essere svenuta, distesa tra i detriti aveva perso la cognizione del tempo. Il freddo e il dolore l’avevano svegliata dal torpore. D’istinto aveva volto lo sguardo oltre lo squarcio del tetto, il cielo era d’ un colore strano, un turchese acceso solcato da livide striature. Quello era il Paradiso? Era dunque morta? Affatto, tuttavia la buona sorte doveva averle voltato le spalle. La donna cercò di togliersi da dosso i calcinacci e mordendosi le labbra per il dolore si trascinò per raggiungere un muro in rovina dalle cui feritoie poteva vedere l’ambiente attorno. Sudava e percepiva uno strano aumento della frequenza cardiaca. Nella coscia un pezzo di vetro aveva aperto una ferita da cui usciva un fiotto di sangue scuro che le imbrattava tutta la gamba. Non potendo rimuovere il corpo estraneo, tentò di bloccare l’emorragia con la sciarpa che aveva al collo. Fasciò strettamente l’arto per restringere il flusso dell’umore caldo. Cercò il cellulare nella tasca del giubbotto antiproiettile. Era ancora carico quindi, con una certa ansia, digitò il numero stabilito in caso di difficoltà. Dopo ripetuti squilli a vuoto comprese che la linea doveva essere occupata. Il “tututu” del telefono le suggerì che poteva essere addirittura staccato, tuttavia senza perdersi d’animo lanciò un messaggio con una richiesta d’aiuto. In attesa dei soccorsi iniziò poi ad urlare nella speranza d’essere udita da qualcuno. La sua voce sembrava disperdersi e risuonare in un ambiente surreale violato unicamente dal frusciare del vento tra le rovine. Dalla sua postazione provò a sporsi attraverso una feritoia nel muro e gettò un’occhiata oltre. In lontananza colonne di fumo s’alzavano dai palazzi sventrati. Dove spesso s’affollavano uomini, donne, giovani e bambini, le uniche a muoversi alla brezza erano le fronde di due alberi in mezzo alla piazza. Notò alcune auto incendiate. Sgomenta, vide poi, distintamente, i corpi di vittime abbandonati ai lati di una strada, parevano zombie disarticolati e dai vestiti lacerati. Per un attimo sperò che si rianimassero. Non fu così. Aveva creduto d’essere preparata al peggio, ma nella solitudine iniziò ad essere preda dello sconforto. Le tempie le pulsavano, una gran debolezza s’era impadronita delle sue membra. Non doveva e non poteva muoversi. La forzata immobilità le procurò un forte disagio e la riduzione della sensibilità periferica. La sua condizione si faceva sempre più grave man mano che il tempo trascorreva e ne era cosciente. L’accresciuta sensazione di sete poteva evidenziare uno stato di disidratazione già presente. A fatica afferrò una bottiglietta d’acqua, piena a metà, rotolata non troppo distante da lei e bevve avidamente. Lasciò una piccola scorta di quell’ essenziale risorsa in caso di bisogno. Non aveva la minima idea di quanto tempo sarebbe restata in quel posto ad aspettare i soccorsi, ammesso che fossero giunti in tempo utile. Il dolore da acuto s’era fatto parte del suo essere come la sensazione di freddo. Un senso di vertigine la colse inaspettatamente, ma durò poco. La precarietà del corpo non le aveva silenziato la mente, così si trovò a riflettere sulla caducità della vita e sulla guerra. Non rinnegava le sue scelte, ma era assalita dai dubbi. Aveva combattuto contro sconosciuti, per conto di persone conosciute che mai si sarebbero sporcate le mani. La guerra avrebbe risolto o peggiorato la situazione? Ebbe un moto di stizza e imprecò. Per la prima volta dall’inizio del conflitto pensò alla pace. Desiderò provare quella sensazione di stare bene che le notti insonni e il frastuono degli scontri non le concedevano da parecchi mesi. Fu distolta dai suoi pensieri da un improvviso crepitio di alcune lattine vuote che rotolavano sul selciato, sospinte dal vento. Le parve d’udire anche più di un crash metallico. Qualcuno doveva averne schiacciata una. Immaginò che altri esseri come lei si erano nascosti per sfuggire al pericolo e cessata la paura erano riemersi dai loro nascondigli sfidando il fato. Riprese a perlustrare la strada, con lo sguardo attento, attraverso il pertugio e rapidamente escogitò un piano per rendersi visibile, ma non troppo. Con cautela s’allungò e prese un bastone sulla cui sommità legò un fazzoletto bianco che aveva appresso. Agitò il segnale più e più volte, nella speranza d’essere vista quindi tornò a gridare con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Nulla, sembrava non essere rimasto più nessun essere umano da quelle parti, tranne lei. Delusa accantonò la segnalazione. Riprese il cellulare e digitò nuovamente il numero d’emergenza con insistenza sino a che l’apparecchio fu scarico. Avvilita riprese a perlustrare la strada attraverso il buco. Ci furono altri “crashes” metallici e su un marciapiede apparvero due gatti randagi. L’aria si riempì di sibili e ringhi in successione. Lottavano. Nella rissa si disputavano una povera preda, un topolino, neppur sufficiente a placare i morsi della fame. Emaciati, la pelliccia gonfia sulla coda e le orecchie rivolte all’indietro si muovevano a ritmo frenetico. Un ultimo assalto, un animale gridò di dolore e il combattimento ebbe fine. Il vinto si allontanò zoppicando vistosamente mentre il vincitore gustò l’ambito premio e migrò dalla parte opposta. L’aver assistito a quella scena aveva distratto la donna dalla sua condizione, ma quando tornò il silenzio riacquistò la consapevolezza del danno subito, fu assalita dal panico e pianse. Ad ogni sussulto e ad ogni singhiozzo le parve di stare meglio, di percepire meno il dolore fisico. D’istinto si toccò gli arti e li percepì freddi. La carne attorno alla ferita aveva assunto una colorazione quasi bluastra ed ebbe paura. Il respiro le si fece irregolare, stanca e spossata socchiuse gli occhi. Si disse che era per poco. In quello stato di sonnolenza confusionale si vide ancora sul palcoscenico a danzare avvolta da una nuvola di tutù, leggera, elegante, come una libellula accarezzata dalla musica. La coreografia era accattivante, l’espressività dei suoi movimenti accendeva lo stupore in chi la guardava e tutti battevano le mani con entusiasmo. Nell’abbacinante scintillio di luci e colori le figure pian piano sfumarono, si fecero ombre, i dettagli divennero sbiaditi. La visione onirica si attenuò sempre più e tutto fu un buco nero.