Maria Luisa Casiraghi.
Ha preso parte a più concorsi letterari tra i quali: “Le donne raccontano” – 2011, vincendo il primo premio a Sassari; “La donna racconta” – 2012, vincendo la menzione d’onore a Firenze e “Mariuccia Ruiu Dessì” V^ e VI^ edizione 2014-2016 a Sassari ricevendo in entrambi gli anni la menzione d’onore. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2018 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Sassari.
L’infermiere Alberto Manca da tempo faceva il turno di notte, l’aveva dovuto scegliere per via del mutuo che aveva sottoscritto prima di sposarsi e che ora gli pesava come un’incudine sul groppone. Colpa della crisi aveva detto, ma sapeva che non era solo quella la causa anche se al mattino mentre rientrava dal lavoro se la ripeteva ormai come un mantra a giustificare l’amarezza e la stanchezza quotidiane.
Per rincasare doveva fare un po’ di strada che percorreva con l’auto che aveva acquistato alcuni anni prima quando era ancora un ragazzotto di belle speranze. Lasciava la città che d’inverno era ancora buio e arrivava al paese che il cielo s’era rischiarato.
Giungeva a casa in tempo per sentir suonare la sveglia della moglie, Gina. Sovente il calpestio di lui sul parquet e il trillo si confondevano nella mente di lei ancora intorpidita dagli umori del sonno trascorso che non voleva abbandonare. Di slancio, poi Gina si sedeva a bordo del letto senza accendere la luce guardandosi attorno nella penombra per carpire la famigliarità di ciò che le stava attorno. S’infilava le pantofole, la vestaglia e con lo sguardo cisposo entrava in cucina. Se lo trovava davanti che già stava accendendo il fornello per mettere su il caffè. Appena i loro occhi s’incontravano a Gina veniva d’istinto di ravviarsi i capelli arruffati e gettare un’occhiata d’intesa che sapeva già non avrebbe avuto l’esito che s’attendeva.
Andava meglio quando Alberto riusciva ad anticipare il trillo e la svegliava entrando nella stanza con la tazzina di caffè fumante tra le mani. Tutto cambiava sapore persino la bevanda che lei trangugiava non prima d’aver strappato qualche coccola alla tirannia del tempo. Lei faticava, allora, ad abbandonare la pigrizia del risveglio, lo abbracciava e gli chiedeva come era trascorsa la nottata. Lui le diceva sempre le stesse parole rammaricandosi dei fastidi, degli imprevisti occorsi nel reparto, delle chiacchiere banali per ingannare la veglia che a volte rischiava di scivolare nel torpore.
Di malavoglia Gina sbirciava la sveglia, si rendeva conto di come fosse tardi: “Devo alzarmi”, diceva tirandosi su dal letto a forza. Gli ambienti della casa erano già caldi, i termosifoni bollenti. Vi appoggiava sopra gli indumenti che avrebbe indossato e via s’infilava nel bagno indugiando un po’ a spogliarsi.
A volte lui la precedeva, ma si sciacquava frettolosamente per togliersi di dosso l’odore dell’alcool e d’ospedale. Le lasciava lo spazio attorno al lavabo osservandola nei movimenti come a voler imprimere nella mente ogni suo gesto. Si sfioravano seminudi nello spazio angusto spingendosi, accarezzandosi e scambiandosi parole intime. Era lei a finire il gioco per andare in camera ad indossare i calzoni e il maglione di lana scaldati sul termosifone. Velocemente Gina si spazzolava i capelli ricci e ribelli specchiandosi davanti allo specchio sopra il comò. Stendeva poi sul viso un po’ di trucco e un filo di rossetto sulle labbra. Soddisfatta volgeva un tenero sorriso verso Alberto che l’aveva seguita come un’ombra e dalla poltroncina su cui s’era seduto le inviava smorfie grottesche per riempire il vuoto dell’abbandono. Gina si metteva addosso il cappotto, agguantava la borsetta, gli indirizzava un bacio e sgattaiolava via verso l’uscita.
Lui era solo. Tendeva l’orecchio a sentire lo scalpiccio dei passi di lei che scendeva i gradini verso l’uscio e la porta d’ingresso che si richiudeva con un colpo secco alle sue spalle. Il rombo del motore metteva fine all’attesa. “Bene”, si diceva Alberto, “anche per lei inizia una nuova giornata”.
La immaginava al volante, stizzita per il traffico mentre percorreva la stessa strada che lui aveva fatto all’alba. Sapeva che comunque sarebbe arrivata puntuale alla boutique in cui lavorava come commessa circondata da abiti morbidi e setosi che mai si sarebbe potuta permettere. Un po’ avvilito, Alberto indossava il pigiama e s’infilava nel letto. Si metteva dalla sua parte con le lenzuola lisce e ordinate, ma subito percepiva un certo disagio ed iniziava a muoversi e ad agitarsi senza riuscire a prender sonno malgrado la stanchezza. Tutte le mattine era così, nel rigirarsi finiva poi per ritrovarsi nel lato di lei ancora intriso del suo profumo e vi si rannicchiava. Pigiava le guance sul cuscino e come un bambino si addormentava.
Gina rientrava a casa che era già sera, saliva i gradini dell’ingresso alla casa con un passo più lento rispetto alla mattina. Inseriva le chiavi nella toppa ed entrava nel corridoio esausta e con la borsa pesante. Si toglieva il cappotto e si lasciava andare sul divano del soggiorno. Sfilava le scarpe e Alberto si avvicinava a massaggiarle i piedi gonfi.
Lui s’era svegliato da qualche ora, aveva rifatto il letto, passato l’aspirapolvere e aveva messo sul fornello l’acqua per la pasta. Scambiavano qualche parola, lei gli raccontava di qualche cliente esigente o pettegola o di quella che senza fiatare aveva acquistato il bell’abito esposto in vetrina. Ridevano. Poi dopo un gran sospiro lei s’alzava: “Devo darmi una mossa”, si diceva guardando attorno.
Si dividevano i compiti, lui scodellava gli spaghetti da condire con il sugo già pronto mentre lei si cambiava. Infilata una comoda tuta di pile, Gina caricava la lavatrice e la metteva in funzione. Girava per le stanze a riordinare poi tornava in cucina. Se era pronto per entrambi si sedevano a tavola per cenare e a discutere di tutto e di niente. Gina accendeva la televisione. Alberto a volte le anticipava le notizie e lei s’arrabbiava. Allora calava il silenzio anche se era una sofferenza.
Alberto s’alzava dalla sedia e andava alla finestra per vedere il tempo com’era. Si risiedeva per bere il caffè che lei aveva preparato. Facevano pace, iniziavano a conversare, ma lui dopo l’iniziale interesse aveva già la testa fuori casa preso dal pensiero di sbrigarsi perché doveva uscire al più presto.
Quelli erano i momenti più difficili. L’uno cercava le mani dell’altro per un contatto da conservare dopo il distacco. Il tempo di indossare il cappotto, un abbraccio, un bacio rubato e Alberto era fuori dall’uscio di casa. Solo allora lui sembrava comprendere la fugacità del tempo trascorso insieme. Tuttavia accendeva il motore dell’auto e sgommando oltrepassava il cancello del cortile di casa.
All’interno della villetta, nel silenzio, Gina sparecchiava. Ripuliva la cucina e si dava un gran daffare a sistemare andando avanti e indietro per le stanze. Stendeva. Ingannava il tempo prima di coricarsi. Nella penombra del soggiorno, guardava un programma alla tv e a volte s’appisolava. Si raffigurava lui già in ospedale tra le corsie algide e fredde. Il cellulare emetteva un debole suono era il messaggio che attendeva: “Tutto bene”, diceva. Gina allora si decideva ad andare a letto. Spegneva la luce e si coricava dalla sua parte. Ogni volta tastava dal lato di lui, ma poi capiva che era meglio raggomitolarsi e affondare il viso nel guanciale assaporando l’odore del suo sposo.