Maria Luisa Casiraghi. Ha preso parte a più concorsi letterari tra i quali: “Le donne raccontano” – 2011, vincendo il primo premio a Sassari; “La donna racconta” – 2012, vincendo la menzione d’onore a Firenze e “Mariuccia Ruiu Dessì” V^ VI^ e VIII^ edizione 2014-2016-2020 a Sassari ricevendo premi e riconoscimenti. Partecipa al Concorso 50&Più per la quinta volta; nel 2018 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Sassari.
L’uomo dal volto paonazzo, con il capo proteso e lo sguardo inchiodato al grande caseggiato oltre lo svincolo camminava spedito. Quando finalmente fu davanti all’entrata imponente, insieme al pianto gli salì dentro l’amara certezza che non c’era più niente che lui potesse fare. Il suo corpo, involontariamente, lo trascinò ancora in là di qualche passo, finché, provato non si affacciò alle vetrate d’ingresso dell’ospedale. Ansimava, distrutto dallo sforzo e dall’inutilità della corsa. Aveva sperato che gli fosse concesso di vedere il volto di lei per l’ultima volta, ma già sapeva che non sarebbe stato possibile.
“È morta. Non c’è stato nulla da fare, ma il bambino è salvo.”. Gli avevano detto al telefono. Mario non aveva voluto credere a quelle parole, ma ora difronte all’infermiere che l’aveva bloccato nell’androne dell’ospedale, i dubbi erano diventati certezze. Poche parole dette di fretta gli avevano confermato la triste realtà senza neppure il conforto d’un briciolo d’empatia. Lui aveva farfugliato qualcosa cercando disperatamente di far capire il suo smarrimento. L’infermiere gli aveva spiegato brevemente cos’era accaduto e ciò che si doveva fare secondo le procedure stabilite e gli aveva chiesto se avesse compreso. Al suo assenso aveva alzato le spalle e aveva accennato un saluto indicandogli l’uscita. Mario aveva tentato d’articolare un suono di senso compiuto ma, dalla bocca gli era uscito una specie di ruggito, un’ingiuria non ripetibile a parole. Aveva solo capito che partorire in tempo di pandemia era stato un azzardo. Era uscito quasi sbattendo la porta e si era ritrovato nuovamente in strada. Gli mancava il respiro mentre si dirigeva al parcheggio in cui aveva abbandonato l’auto. Entrò in macchina, girò la chiave dell’accensione e iniziò a guidare senza una meta precisa. Finì col trovarsi davanti l’entrata del parco cittadino. Si fermò, scese dal mezzo e si mise a gironzolare in cerca di una panchina. Quando trovò quella adatta si sedette, prese il capo fra le mani e finalmente pianse. Il ristoro delle lacrime non fu sufficiente a lenire il dolore, tuttavia gli permise di spaziare nei ricordi. Proprio lì, lui e Ada s’erano dichiarati reciproco amore e sempre in quel posto avevano deciso di sposarsi. Quando lei gli aveva comunicato che sarebbe diventato padre per la prima volta qualcosa dentro di lui s’era dischiuso, qualcosa come un canto, un moto gioioso, un sogno scaldato dal sole, colorato dai fiori che era riuscito a condividere pienamente. L’attesa era stata scandita dal trascorrere della quotidianità e dalla volontà di riprogettare la loro via insieme. Per Ada l’esperienza della gravidanza si era rivelata sin da subito un insieme di turbamenti, gioie e percezioni contrastanti. Quando appresero dalla tv le prime informazioni dell’esistenza del virus ne lui, né lei si erano preoccupati più di tanto per qualcosa che accadeva così lontano, in un luogo sconosciuto che solo per curiosità avevano cercato sul mappamondo. Come tutti avevano pian piano preso l’abitudine a seguire le notizie e le prime apprensioni le avevano vissute con l’inizio della diffusione della malattia in Italia. La parola pandemia era entrata a far parte del loro vocabolario come del resto dei loro parenti, amici e conoscenti. Mario e Ada si erano subito rivolti al medico che li aveva tranquillizzati, se avessero seguito scrupolosamente le regole nulla sarebbe andato storto. Seguire le raccomandazioni non era né difficile, né complicato bastava la buona volontà. Comunque lei da quindici giorni era entrata in congedo per maternità ed era sollevata nell’affrontare l’ultimo periodo di gestazione in casa al riparo da ogni pericolo. Certo era diventata molto più sensibile nei confronti delle notizie buone o brutte. Si sentiva vulnerabile e diceva: “Mario proteggici.”
A volte in preda all’ansia si era lamentata di non riuscire a gestire tutto, di faticare ad accettare il suo corpo che cambiava. Per lui era sempre bella, delicata, con gli occhi di cielo e l’espressione corrucciata. Guardandosi allo specchio Ada indugiava ad accarezzare il pancione che lievitava e prestava sempre più attenzione ai movimenti del piccolo. “Sembro una mongolfiera” ripeteva “ma sento già che sono unita a questo figlio che scalcia dentro di me.”
Subito le tornava il sorriso sulle labbra. Tutto ormai gravitava attorno al bambino, le sue energie e le cure. Già gli cantava le ninne nanne.
Spesso Mario l’aveva scoperta a chiacchierare con quell’esserino ancora sconosciuto.
“Non voglio fantasticare troppo su di te, ma sono molto curiosa di fare la tua conoscenza…”, gli sussurrava.
L’attesa improvvisamente aveva coinciso da una settimana con il periodo di chiusura totale di ogni attività. Il nuovo ritmo delle giornate era stato ancor più piacevole, stare con Mario nell’intimità, nella condivisione delle noie domestiche, nel cucinare senza nulla togliere ai propri spazi di libertà. Non vedere i familiari e gli amici era pesato parecchio. Un sacrificio da fare per il futuro. Con l’avanzare della gravidanza Mario s’era dovuto caricare di quasi tutte le incombenze anche per via di quella tosse che ad Ada toglieva il respiro. Come aveva preso quel virus maledetto? Tutto era precipitato in fretta e lei era finita in ospedale. Timore per la sua vita, per il bimbo che portava in grembo. Lui le aveva detto: “Andrà tutto bene.”
Non era stato così. Le condizioni di Ada, dopo il parto cesareo, si erano ulteriormente aggravate e il suo cuore aveva cessato di battere. Sarebbe stata una buona madre, la sua esperienza d’insegnante l’avrebbe sicuramente aiutata. Amava i bambini, ancor di più avrebbe amato il suo. Seduto sulla panchina Mario cercò consolazione in quei pensieri, s’asciugò le lacrime con il palmo della mano e guardando nel vuoto gli sovvenne che doveva pensare al suo bambino. Chissà perché gli tornarono alla mente le parole d’una poesia letta ai tempi dell’università che recitava così:
La vita non è solo
un sogno infranto
o un vuoto a perdere.
La vita non è solo
ciò che è stato
e non tornerà.
La vita non è solo
cammino e traguardo,
ma da un vagito speranza.