Moglie di Luis Sepúlveda – scomparso lo scorso anno a causa del Covid 19 -, ci racconta come i versi e la scrittura l’abbiano aiutata a vivere, dopo l’addio al suo “Lucho”.
Ignoranti della luce che circondava l’innocenza/ eravamo così felici amore mio,/ attraversando tutte le strade/ e ridendo degli ostacoli di pietre e grandine/ con il calore delle nostre mani unite/ che volevano fermare la nostra corsa». Sono versi di una struggente poesia che Carmen Yanez ha dedicato al compagno della sua vita, al suo “Lucho”, lo scrittore Luis Sepùlveda.
La storia di Carmen è la storia della monella, “Pelusa”, e di “Lucho”, il lottatore, quello che non si arrende mai. Carmen “Pelusa” Yanez, poetessa. Luis “Lucho” Sepúlveda, scrittore. Quarant’anni fa, adolescenti innamorati a Santiago del Cile, giovani sposi. Un figlio, la felicità, un mondo a colori. Ma all’improvviso tutto si fa buio, orrore. Separati, sequestrati, torturati dal regime di Pinochet. Il mondo che diventa solo bianco e nero. Nessuno sa più nulla dell’altro, inevitabilmente lei lo crede morto, in qualche modo gli sopravvive. E poi esuli per il mondo, lontani dalla propria terra, ognuno percorrendo la sua strada. Si ritroveranno molti anni più tardi in Europa. E torneranno a sfiorarsi, a guardarsi negli occhi. A sposarsi una seconda volta, protagonisti di una grande storia d’amore… Poi Lucho è scomparso, tra le prime vittime del Covid nell’aprile del 2020.
Carmen Yanez è una poetessa fluente e molto accattivante con i suoi temi preferiti, la memoria, l’esilio, la poesia stessa, con il suo mondo denso di ideali e battaglie civili.
E una parola sempre esatta, che non conosce nessun orpello retorico per dire sempre la “sua verità”, cercando e cogliendo il nucleo del senso. E lo dimostra anche il suo ultimo libro, Senza ritorno, pubblicato in Italia da Guanda, per il quale ha avuto, a L’Aquila, il Premio internazionale Laudomia Bonanni, che in precedenza era stato assegnato, tra gli altri, a Evtushenko, Walcott, Takano, Adonis. La incontriamo nell’occasione abruzzese per una conversazione.
“Eravamo così felici e non sapevamo”, attraversiamo il tempo senza comprendere ciò che possiamo perdere? Dicono questo i suoi versi. Cosa ne pensa Carmen?
Ebbene sì: a malapena ci rendiamo conto che, nonostante certe mancanze, abbiamo quasi tutto per essere moderatamente felici finché un lampo, un uragano, un tornado, un maremoto, una guerra, una pandemia ci toglie brutalmente ogni felicità.
Carmen: penso al titolo della sua raccolta di poesie. Lo ha scelto prima della morte del suo Lucho?
È purtroppo una dolorosa coincidenza.
Ma è un’immagine che può racchiudere il senso della sua esistenza?
Vuole indicare un timore: ogni essere umano che abbandona il suo luogo di origine ne è accompagnato per tutta la sua esistenza. Tornare o non tornare? Oppure disfare per sempre la valigia? Nel mondo sei davvero alla ricerca di un posto che sia davvero definitivo?
Ha scritto che “La poesia deve mettere il dito nell’occhio dell’incredulo”. Perché?
La poesia non mente, anzi si espone, si spoglia. Apre le finestre affinché gli uni e gli altri, e tutti insieme, possano identificarsi e reinventarsi.
La poesia può svolgere un qualche ruolo nel cambiare le menti, ad esempio, rispetto alle questioni ambientali, politiche?
La visione del mondo ci cambia man mano che ci apriamo al mondo e diventiamo consapevoli dell’ambiente, a seconda del contesto in cui ci troviamo nella storia. La poesia non cambia il mondo, ci vuole molta fatica per cambiarlo, ma dà il suo immenso contributo alla coscienza, indicando le piccole cose che la storia ufficiale non racconta ma con cui si costruisce la vita.
Lei scrive versi da quando aveva 14 anni. In tanto tempo qualcosa è cambiato nel suo rapporto con la poesia?
Certamente, credo che senza di essa non si possa costruire futuro.
Qual è l’eredita più importante che le ha lasciato Lucho?
Lucho diceva sempre che lui, prima di essere uno scrittore, era un buon cittadino, e un buon cittadino è colui che si impegna nella società. Mi ha lasciato il suo esempio di essere umano generoso, solidale, empatico.
C’è qualcosa con cui riesce a sopportare questa scomparsa, ad elaborare meglio il lutto?
Poesia sempre, poesia per sempre.
Mi dica con un verso, una citazione amata, una semplice definizione ciò che è stato per lei l’incontro e l’amore di e per Lucho.
“Cosa resterà di noi/ innamorati/ se non il pomeriggio quando/ il sole splende/ sull’assenza?”. Sono versi di Memoriale, una poesia che si legge in Abitata dalla memoria, la mia precedente raccolta.
So che la vostra canzone era Gracias a la vida, di Violeta Parra. La sente ancora?
Ora più frequentemente, non prima. Era troppo doloroso. È un canto, una speranza, il segno indelebile di un incontro, che come gioia, appartenenza, destino, incalza e protegge.
Sta scrivendo un libro sulla vostra storia d’amore. Continua ancora oggi?
Sì, e mi è assai utile anche come arma per difendermi dalla mia stessa solitudine.
Una sua lontana poesia aveva come titolo Resilienza. Cos’è ora per lei la resilienza?
Ricominciare da me stessa, solo con i miei mezzi.
Cosa abbiamo da imparare dai terribili giorni della pandemia?
Sii più solidale, stringi la mano a chi non ha nulla, per creare un mondo diverso, senza consumismo, creare senza competere. Speriamo di imparare questa lezione così essenziale.
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