Nazzareno Carideo. Laureato in giurisprudenza, ha lavorato come consulente nell’Amministrazione provinciale di Isernia, città in cui vive. Tra le sue passioni la scrittura, la pittura e la fotografia. Suoi lavori sono stati inseriti più volte in varie antologie di autori vari. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni; nel 2013 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa e nel 2019 la Farfalla d’oro per la fotografia.L’incontro avvenne all’alba. Davanti a un cimitero.
Quando si arrivò sul luogo capimmo il motivo. Il cimitero era alla fine del paese, coperto da immensi cipressi e da occhi indiscreti. Tutto si svolse con regolarità e nella massima celerità. E pioveva a dirotto. Lui era già lì. Parcheggiato con la sua macchina e in penombra. Noi, arrivammo, emozionati e agitati da una notte insonne e con qualche minuto di ritardo. Lo scambio avvenne come pattuito. Uscimmo veloci dalla nostra auto, lui ci venne incontro. Poche parole e tutto si concluse. La cifra pattuita in cambio di “Lui”. Poi, immediatamente, nelle nostre auto.
Era spaventato e si guardava intorno con quella sua faccetta che lo faceva sembrare ancora più piccolo dei suoi tre mesi di vita. Finalmente! Ora era nostro e avrebbe fatto compagnia ad Alina che lo aspettava a casa. Nessuno ci aveva visti anche perché i morti del cimitero non vedono e non parlano!
Quando, felici, arrivammo a casa, ci fu quel periodo di adattamento che già sapevamo. Poi, dopo qualche giorno, si scatenò l’inferno. “Lui” non era come gli altri che avevamo avuto. Era un terremoto! Sempre in movimento. Vivacissimo e faceva impazzire Alina, abituata ad una certa tranquillità. Amava stare sempre fuori e giocare con le nostre teste.
Decidemmo di averne altri due per distrarlo. Ed entrarono nelle nostre vite “Azzurro” e “Lola”. Niente di niente. Non si calmò. Velocissimo, sempre di qua e di là. Era l’anima della casa. Una volta disturbava “Azzurro”, un’altra volta “Alina” e tante volte “Lola” a cui venne, per lo stress – disse il dottore – una malattia che le faceva perdere il sonno e la concentrazione.
Ma, senza di “Lui”, non sapevamo più stare. Era sempre nei nostri discorsi e nei nostri progetti facendoci sentire in colpa nei confronti degli altri tre, che, sotto sotto, erano un po’ trascurati.
Vivemmo bene con “Lui” e con gli altri. Si giocava insieme e si viaggiava per il mondo, prima che il coronavirus ci impedisse di farlo.
Ma, il tempo passa, si matura, si cresce e si vuol scoprire nuovi orizzonti. La grande voglia di avventura ci spaventava, e, infatti, un giorno, una triste mattina fredda e nuvolosa, senza un saluto, come era nel suo carattere, non lo trovammo più a casa. Lo sconforto ci stordì. I sensi di colpa ci colpirono l’anima. In cosa avevamo sbagliato? Come avremmo dovuto evitare affinché non se ne andasse? Restammo giorni in totale astinenza di iniziative. Non sapevamo vivere senza di “Lui”. Dopodiché abbiamo avuto la forza di riprenderci. Dovevamo fare qualcosa. Ci siamo dati una scossa. Abbiamo cominciato a coinvolgere il vicinato nella nostra disgrazia. Il passaparola a volte è miracoloso. Poi, ci siamo rivolti ad una tipografia, facendoci stampare delle foto a colori del nostro “amato” e con queste immagini abbiamo martellato incessantemente tutti coloro che si incontravano nel quartiere e anche più lontano, per vedere se avessero visto il nostro “piccino”. Infine, i manifesti, affissi in ogni dove: negozi, supermercati, portoni condominiali, garage pubblici, muri di case e scuole e uffici.
Eravamo disperati e moralmente distrutti.
Perché se ne era andato? Senza nemmeno salutarci! Come viveva? Gli era successo qualcosa? Era stato rapito? Cosa mangiava? E la notte, dove dormiva? Tutte domande senza risposte che ci facevano male al cuore e ci tormentavano l’anima. La nostra disperazione cresceva e incrementava il nostro dolore col passare dei giorni. Era terribile il nostro senso di colpa che ci dilaniava. In cosa avevamo sbagliato? Era questa la domanda che sempre, guardandoci negli occhi, senza parlare, in un tacito accordo reciproco, ci si poneva.
E il tempo passava, e i giorni scorrevano implacabili senza alcuna notizia e senza che nessuno segnalasse nulla. Avevamo anche aperto un blog sui social, dove, in tanti scrivevano per ritrovare i loro cari smarriti. Molti venivano ritrovati, altri si perdevano per sempre … così va la vita.
Quel venerdì, invece, dopo un mese e tre giorni dalla misteriosa sparizione ci arrivò una telefonata alle 13,07. In un primo momento sembrava una telefonata di depistaggio, una voce, certamente camuffata, e balbettando, parlava di un ritrovamento a tanti chilometri di distanza. La sorpresa e lo sbigottimento ci confusero le idee. Il dubbio lasciò il posto alla speranza. Il timore che all’altro capo del telefono ci fosse un burlone era pulsante, ma le nostre aspettative spingevano a cercare uno spiraglio che abbattesse il muro di diffidenza. Poche parole. L’interlocutore moderava il linguaggio e spezzava le frasi. Sapeva che, in certi casi, la brevità è d’obbligo. Ci diede un orario ed un luogo dove ci si doveva vedere per effettuare la consegna. Il luogo era fuori città e l’orario era da rispettare al secondo. Non aveva tempo da perdere. Se non si arrivava alle 24,00 in punto se ne andava. Non c’era alternativa. Naturalmente si doveva andare all’appuntamento da soli. Non voleva testimoni. Via … alle 24,00 in punto! Mancavano undici ore!!!
Il tempo scorreva, lento, regolare, inafferrabile, e l’emozione cresceva, veloce, caotica, impulsiva. Otto ore, poi sette e poi sei … ci si muoveva in silenzio o si pregava che fosse realmente il nostro caro Biscotto e che stesse bene. Intanto si avvicinava il momento in cui l’incontro sarebbe avvenuto. Tre ore, poi due ed infine un’ora solo.
Alle 23,05 salimmo in macchina e ci avviammo fuori città, diretti al luogo fissato per l’appuntamento.
Arrivammo in anticipo di molti minuti. Il luogo era spettrale. Avevamo percorso il raccordo anulare per poi venire a prendere una stradina di campagna non asfaltata, piena di buche e, naturalmente, completamente al buio. La notte era senza stelle e senza luna e non si vedeva un tubo. Spegnemmo il motore dell’auto e le luci. Ci venivano i brividi pensando a dove eravamo e, soprattutto, a quello che stava per accadere. E mancavano cinque minuti al momento cruciale.
A mezzanotte precisa, vedemmo davanti a noi a circa cento metri, accendersi i fari di una macchina. Saltammo, per la sorpresa e per la paura, dai nostri sedili. Poi, i fari lampeggiarono … la macchina era sempre stata lì, davanti a noi, ma non l’avevamo vista, causa il gran buio che attanagliava il posto. Arrivò, improvviso, a violentare il silenzio tetro e misterioso della notte, un messaggio sul nostro cellulare, che si accese furibondo, poche parole, ma perentorie come un ordine: “Uscite dall’auto e camminate verso di me”.
Nella notte più oscura della nostra vita, con una rapida occhiata di assenso, spalancammo le portiere dell’auto e barcollando vistosamente, ci incamminammo, in preda al terrore, verso i fari dell’altra auto, ora sempre accesi ad abbagliarci e ad impedirci di scorgere chi ci fosse al volante.
Quando, camminando tra le buche della stradina ed inciampando più volte, giungemmo a tre metri dall’auto, sentimmo aprirsi la portiera sinistra e, facendoci scudo con le mani per ripararci dal bagliore dei fari accesi, vedemmo ergersi davanti a noi un omone che pareva uguale a Bud Spencer e ci apostrofò con un vocione da orco. La cosa che più ci spaventò, e che portava una pistola alla cintura dei pantaloni. “Buonasera. Scusate il luogo scomodo e quasi impraticabile e soprattutto l’orario, ma, io faccio la guardia notturna nella vicina fabbrica di materiali edili e di giorno dormo e, purtroppo, non ho tempo, e di notte lavoro, qui intorno, e mi sembrava il luogo più adatto ad incontrarci. Ho notato che avete visto la pistola. Non spaventatevi. Mi serve per il lavoro che faccio”.
“Sì, capiamo”. Rispondemmo noi.
“Adesso vi faccio vedere il piccolo”. Così dicendo si piegò nella parte posteriore della vettura e fece l’atto di prendere il nostro amato piccolo.
Nella notte profonda e buia, la lucetta di cortesia posta nell’abitacolo del veicolo si illuminò all’apertura della portiera e … il batticuore ci prese. Vedemmo il nostro piccolo Biscottino!
Era lì. Accovacciato e mezzo addormentato, ma vivo e vegeto! Quando Bud Spencer lo tirò fuori completamente dall’auto per mostrarcelo, disse: “E’ lui? Lo riconoscete?”.
Con la mano tremante e con incertezza, schiacciai il tasto “torcia” del cellulare che, come un raggio di sole, illuminò Biscotto, che svegliandosi dal suo torpore, emise un suonetto di saluto. Sì! Era lui! Era il nostro amato e caro Biscotto, ritrovato dopo un mese e tre giorni di disperate ricerche.
In un impeto emozionale abbracciai Bud Spencer, sentendomi piccola piccola al suo cospetto.
Biscotto, il nostro atletico pappagallino ondulato, che era volato via dal nostro balcone di città, era finalmente con noi, grazie a questo omaccione assomigliante a Bud Spencer, che lo aveva ritrovato e, fortunatamente, aveva letto il nostro sentito appello. Ora sarebbe tornato a casa, dove avrebbe ricevuto le feste delle altre tre cocorite: Azzurro, Alina e Lola.
Biscotto vi ringrazia per l’attenzione riservata a questo racconto e vi lancia un monito: “Non tutto, a volte, sembra com’è”.
Ciao a tutti.