Il Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità ha condannato l’Italia per una discriminazione ai danni dei caregiver. Nel nostro ordinamento giuridico nazionale non è prevista alcuna forma di tutela per chi “si prende cura”
In Italia sono oltre 12 milioni le persone – tra i 18 e i 64 anni – impegnate in attività di cura verso figli, fratelli, genitori o altri parenti. Lo attestano i dati dell’indagine ISTAT Conciliazione tra lavoro e famiglia, l’ultima sul tema pubblicata nel 2019. Una responsabilità di cura che grava principalmente sulle donne che, spesso, devono farsi carico dell’assistenza a familiari malati, disabili o anziani. La tendenza è confermata anche dal IV Rapporto annuale sul lavoro domestico, pubblicato lo scorso anno dall’Osservatorio nazionale DOMINA, secondo cui i lavoratori domestici impegnati nella cura sono prevalentemente donne di cinquanta anni d’età. I caregiver appositamente assunti a tempo pieno o parziale, in questo caso, sono principalmente persone straniere, provenienti soprattutto dall’Est Europa. Secondo i dati DOMINA, il 57,5% è rappresentato da donne straniere, il 27,4% da donne italiane, il 12,4% da uomini stranieri e solo il 2,6% da uomini con cittadinanza italiana. Purtroppo, però, solo il 47,7% di questi è costituito da lavoratori regolari, mentre il restante 52,3% fa parte del cosiddetto “lavoro sommerso”.
Penalizzati sul mercato del lavoro
Che si tratti di famigliari che ricoprono il ruolo di caregiver o persone assunte per svolgerne la funzione, sembra che le penalizzazioni sul mercato del lavoro interessino entrambi le categorie. Nel primo caso, infatti, la conciliazione del tempo dedicato alla cura con quello adibito allo svolgimento della propria professione dà vita a un duplice impegno che spesso genera un forte stress e impatta su entrambe le sfere della vita della persona. La cura dei cari, infatti, può rivelarsi difficile da gestire, con implicazioni psicologiche ed emotive di vario genere, e le risorse fisiche e cognitive possono non essere sufficienti a rispondere alle richieste lavorative di ogni giorno, portando la persona a trascurare i propri bisogni e ad annullare completamente le proprie necessità. Chi, invece, svolge un lavoro di cura “professionale” può affrontare altre difficoltà. Secondo quanto riportato in Verso un mercato del lavoro di cura: questioni giuridiche e nodi istituzionali, di Lilli Casano (ADAPT University Press, 2022), queste mansioni sono spesso associate a bassi livelli salariali, a condizioni di impiego precarie e a forme di irregolarità contrattuale che portano a una svalutazione dell’azione di cura. Inoltre, i rapporti sul luogo di lavoro, la presenza simultanea di più contratti e più datori di lavoro per raggiungere uno stipendio dignitoso e l’ammontare (spesso spropositato) di ore lavorative possono contribuire alla difficile costruzione di una vita privata serena e soddisfacente.
Permessi, congedi e flessibilità lavorativa
Esistono, tuttavia, alcuni permessi, congedi e tipologie di flessibilità lavorativa a cui la persona che lavora può accedere per assistere un proprio familiare convivente non autosufficiente. Ad esempio, la Legge n. 104/1992 contempla tre giorni (anche continuativi) di permesso mensile, retribuito e coperto da contribuzione figurativa. Ci sono poi dei congedi straordinari, previsti per il caregiver di persone con gravi disabilità, e si tratta di periodi di astensione dal lavoro che possono essere utilizzati anche in modo frazionato. Le misure organizzative pensate per favorire la conciliazione vita-lavoro, invece, prevedono il cosiddetto “lavoro agile”, diventato famoso durante la pandemia da Covid-19. Si tratta della possibilità di vivere l’attività lavorativa in parte all’interno dell’azienda e in parte all’esterno senza una postazione fissa, rispettando l’orario di lavoro giornaliero e settimanale.
Il caregiver professionale
I caregiver inquadrati regolarmente come lavoratori domestici godono, invece, delle tutele stipulate nel Contratto Collettivo Nazionale come ferie, malattia, permessi retribuiti. Recentemente si è assistito a una maggiorazione dei salari minimi e dell’indennità di vitto e alloggio. Si tratta però di aumenti derivati da un “automatismo” calcolato in relazione all’inflazione rilevata dall’ISTAT e non da negoziati o trattative fra le parti sociali. Una serie di benefici, comunque, che, come abbiamo visto, interessano solo quella metà di lavoratori regolarmente inquadrati.
La condanna del Comitato Onu
Proprio alla luce di queste criticità, il 3 ottobre scorso il Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità ha condannato l’Italia per una discriminazione ai danni dei caregiver. Nel nostro ordinamento giuridico nazionale, infatti, non è prevista alcuna forma di tutela per chi “si prende cura” e ci sono stati dati 180 giorni per rispondere con misure idonee e risarcimenti. Un primo passo sembrava concretizzarsi con la Legge Delega sulla Non Autosufficienza licenziata a marzo, ma ne è stata eliminata la parte riguardante i caregiver. A sopperire le mancanze ci provano, però, le Regioni, che autonomamente approvano leggi che riconoscano il valore sociale ed economico dei caregiver familiari provando ad alleggerire il peso e la pressione che c’è su famiglie e lavoratori.
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