A Palazzo Barberini anche opere inedite o poco visibili. Abbiamo incontrato Maria Cristina Terzaghi, curatrice: «Un artista pienamente immerso nel suo tempo»
Caravaggio 2025 è l’eccezionale mostra allestita a Palazzo Barberini nell’anno giubilare, una monografica dedicata all’artista che rivoluzionò la storia dell’arte occidentale, moderno e universale, che continua a parlare a tutti. Una folla di visitatori ha invaso le sale dell’esposizione, a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, per ammirare i 24 capolavori straordinariamente concessi in prestito dai più prestigiosi musei nazionali e internazionali come I Musici del Metropolitan di New York, I Bari oggi in Texas e Santa Caterina di Alessandria, proveniente da Madrid. Inedito il confronto tra le due versioni del ritratto di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, provenienti entrambe da collezioni private, che apre a una riflessione sulla produzione ritrattistica di Caravaggio che dovette essere molto vasta e stimata, anche se poche sono le testimonianze arrivate fino a noi.
Il percorso si snoda tra le importanti commissioni pubbliche romane (in mostra la prima versione della Conversione di Saulo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi) e napoletane, in anni in cui realizza l’Ecce Homo ritrovato nel 2021, La cattura di Cristo di Dublino e il San Giovanni Battista di Kansas City, e si chiude approfondendo l’ultima fase della produzione dell’artista, animato dal costante desiderio di tornare a Roma: dal David con la testa di Golia (un suo autoritratto) al Martirio di Sant’Orsola, dipinto pochi giorni prima del suo ultimo tragico viaggio.
Ci siamo fatti raccontare la mostra dalla curatrice, Maria Cristina Terzaghi, con la raccomandazione di «farsi un regalo e andare a vederla, un’ora di gioia pura!».
Professoressa, perché una mostra su Caravaggio, nel 2025?
Per prima cosa, perché dentro la bellezza non c’è mai fine. È come dire, perché rileggiamo Dante? In secondo luogo, in questi ultimi quindici anni ci sono state scoperte che hanno rivoluzionato il nostro modo di vedere il percorso di Caravaggio, fin dagli esordi. Inoltre, in mostra sono esposte opere inedite o poco visibili, come l’Ecce Homo, scoperto a Madrid nel 2021, e il Ritratto di Maffeo Barberini, pubblicato da Longhi nel 1963 e finalmente recuperato alla vista del pubblico.
Come è cambiata la percezione che abbiamo di Caravaggio negli ultimi anni?
Gli studi recenti ci hanno permesso di assestare alcune cronologie, in particolare quella dell’arrivo di Caravaggio a Roma che dal 2011 abbiamo posticipato di circa un anno. Questo significa che ci sono tutta una serie di opere che pensavamo scalate nell’arco di tre o quattro anni, la cui esecuzione si concentra invece nel giro di un paio d’anni. Qualsiasi artista proveniente dal Nord, se voleva affermarsi a Roma, frequentava le botteghe locali e dipingeva teste di santi, imperatori e uomini illustri. Caravaggio lo fa lavorando in modo quasi febbrile, la mattina in una bottega e la sera in un’altra. Lo testimoniano anche le fonti; ad esempio, ci è chiara oggi l’affermazione di Karel van Mander che nel 1604 diceva «tutto afferrando come chi vuole emergere». Quadri come la Buona ventura, I Bari e I Musici, esposti in mostra, testimoniano questo procedimento esecutivo e segnano il momento in cui, come dicono i biografi, «prova a stare da sé stesso», quindi cerca di mettersi in proprio. Un percorso eccezionale, il suo (era geniale e i contemporanei se ne sono accorti subito), all’interno di una prassi normale.
Inoltre, si è evoluta l’idea del pittore maledetto in lotta con la società del suo tempo: non è stato così. Di tutte le opere pubbliche eseguite da Caravaggio ne è stata rifiutata una soltanto, La morte della Vergine, respinta poi, per ben due volte, anche a Carlo Saraceni. Non era quindi un problema di artisti ma della committenza. Sicuramente Caravaggio fu un artista borderline, che ha avuto molto a che fare con la giustizia, cosa che non era una norma, pur in una città molto violenta come Roma nel Seicento. Insomma, il quadro che abbiamo è quello di un’artista pienamente immerso nel suo tempo, che quando ha sbagliato ha cercato tutta la vita di ottenere il perdono del Papa: avrebbe potuto tranquillamente abitare a Napoli senza più incorrere in problemi di giustizia; invece, ha cercato di tornare a Roma, che evidentemente sentiva essere “la sua casa”.
Ci racconta la vicenda che ha visto protagonista l’Ecce Homo di Madrid?
L’Ecce Homo era in collezione privata e andò in un’asta che si doveva tenere nell’aprile del 2021 a Madrid. Eravamo ancora in epoca Covid, si circolava pochissimo. Quando l’immagine venne divulgata raggiungendo la comunità scientifica internazionale, alcuni studiosi hanno fiutato la possibilità che si trattasse di un capolavoro. Io sono stata l’unica a sfidare la pandemia e a volare a Madrid prima che il quadro fosse tolto dall’asta, e quindi dalla vista pubblica, e scomparisse per i tre anni che sono stati necessari al compimento della storia commerciale dell’opera.
Ho potuto appurare, ripercorrendo tutta la vicenda a ritroso, che l’Ecce Homo era stato portato in Spagna dal viceré di Napoli, il Conte di Castrillo, tra il 1657 e il 1659, e che probabilmente fu donato o addirittura comprato appositamente per Filippo IV che si approvvigionava di dipinti a Napoli attraverso il Castrillo. Quando andò all’asta era attribuito alla cerchia di Ribera e aveva un valore base d’asta di 1.500 euro: poi su tutti i giornali è stato scritto che l’opera è stata venduta a 36 milioni. Su questa vicenda è stato girato un documentario dal regista spagnolo Àlvaro Longoria, Il Caravaggio perduto (una coproduzione italiana con Fandango), che racconta passo dopo passo – come un thriller – tutte le vicende della riscoperta dell’opera e della sua attribuzione da parte della sottoscritta e di altri studiosi.
Qual è stato il lascito di Caravaggio?
È stato un lascito straordinario. Dal punto di vista della professione dell’artista, con Caravaggio viene centuplicata l’idea – tutta moderna – di un artista che può lavorare espressamente per il mercato e non solo per un mecenate o un committente. Dal punto di vista tecnico, Caravaggio ha introdotto la libertà di lavorare senza l’ausilio del disegno come strumento di ideazione ma con l’ausilio del modello, cioè dipingendo con il modello davanti. Questo non significa che Caravaggio non sia un pittore colto, conosceva molto bene i lavori anche degli altri grandi maestri, ma decide di introdurre una strada diversa.
L’altra novità tecnica Caravaggio è stato il colorito e cioè l’uso di chiaroscuri accentuati. Il fondo scuro si era visto a Venezia ma non era mai stato praticato in questo modo. Al lume diurno, come diceva Pasolini, o zenitale del Rinascimento, Caravaggio ha sostituito il lume notturno. Questa è una rivoluzione sicuramente straordinaria.
Cosa significa che la poetica di Caravaggio si incentra su vero e umano?
Vero e umano sono le due categorie senza le quali non si può comprendere l’opera di Caravaggio. Vero perché l’idea di prendere direttamente dal modello avvicina la pittura a un’esperienza reale. Umano perché a Caravaggio interessa soprattutto la figura umana, nei suoi quadri ci sono pochissimi paesaggi e la natura morta che troviamo nelle prime opere a poco a poco viene meno per concentrarsi sulla rappresentazione dell’uomo e dell’espressione dell’animo umano. Queste caratteristiche hanno commosso da sempre chi è entrato in contatto con le sue opere, e forse proprio per questo è sempre stato percepito come moderno, tanto che i contemporanei dicevano: «La sua è una maniera (cioè uno stile) meravigliosamente adatta per essere seguita dai giovani».
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