Negli ultimi tempi, l’idea che una persona possa essere “cancellata” – bloccandola sui social e arrestandone la brillante carriera – è diventata argomento di un dibattito che ha coinvolto persino Papa Bergoglio.
La cancel culture, la cosiddetta “cultura della cancellazione”, nasce per paradosso negli Stati Uniti, terra del pluralismo e della libertà di pensiero. Il vocabolario Merriam-Webster la definisce “la pratica a impegnarsi nell’annullamento di massa per esprimere disapprovazione tramite la pressione sociale”. Così la Treccani: “Atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto che li priva di sostegno e gradimento”.
Se non mi piaci ti cancello
Come nel film Se mi lasci ti cancello, la cui protagonista si fa rimuovere il ricordo del fidanzato per non soffrire più, il rischio di boicottaggio per i personaggi pubblici è dietro l’angolo. Come dire: “Attento a ciò che dici o fai, perché se mi deludi ti elimino” (virtualmente, beninteso). Molto semplicemente, chiunque venga accusato – in assenza di un confronto pubblico – di agire o esprimersi in modi politicamente scorretti viene di fatto “annullato” dalla vita sociale. Con i danni di immagine ed economici facilmente immaginabili.
Gli effetti della cancel culture nelle università americane
Non serve essere una celebrity per entrare nella lista nera. Il bollo di infamia può ricadere su chiunque. Lo testimonia Coleman Sink, professore di lettere dell’Università di Athena (Stati Uniti) costretto a dimettersi per una frase interpretata come razzista. O Charles Negy, docente di psicologia all’Università della Florida, accusato di discriminazione e oggetto di una campagna social con l’hashtag #UCFfirehim, accompagnata da una petizione per il suo licenziamento. Un attacco così violento da spingerlo alle dimissioni dopo 22 anni di insegnamento. E non sono i soli. Le lezioni di criminologia di Mike Adams sono state boicottate con una violenta campagna diffamatoria sui social. Il motivo? Le critiche ai saccheggi seguiti alla morte di George Floyd e l’accusa di “teppismo” al movimento Black Lives Matter. Un odio che lo ha spinto – nonostante la vittoria in tribunale – a ritirarsi e infine al suicidio.
Le vittime del politicamente scorretto
Più spesso gli haters colpiscono il mondo dello spettacolo. Harvey Weinstein (oggetto della campagna #MeToo), Bill Cosby e Kevin Spacey dopo l’accusa di molestie sul lavoro sono di fatto scomparsi, travolti da un’ondata di odio sociale che ha travalicato le aule di giustizia per finire sui social di tutto il mondo. Seguiti da, pur se in una ovvia assenza di condanna da parte di un tribunale, Charles Darwin, Beethoven e Winston Churchill. Travolti da un’ondata di revisionismo storico, sono tutti accusati di aver sostenuto la “supremazia bianca”. Per lo stesso motivo il British Museum ha recentemente rimosso il busto del suo fondatore, Sir Hans Sloane, colpevole di schiavismo.
Se il colpevole è Dumbo
La crociata contro il politicamente scorretto della cancel culture travolge ormai tutto e tutti. Dalle statue di Colombo, abbattute con l’accusa di colonialismo, al principe di Biancaneve incriminato per avere “estorto” il bacio alla sua amata, ancora addormenta. E che dire di Via col vento, prima cancellato (e poi reinserito) dal catalogo della HBO per aver offerto una visione stereotipata e “totally white” dell’epoca descritta. Persino la Disney, per amor di fatturato, ha dovuto fare pubblica ammenda. Il motivo? Dumbo e Peter Pan contengono rappresentazioni negative e insulti verso persone e culture (a titolo di esempio la colpa di Peter Pan è chiamare i nativi “pellerossa”).
Il richiamo degli intellettuali al confronto
Il rischio di una nuova caccia alle streghe è reale, tanto che 150 intellettuali americani hanno scritto una lettera aperta su Harper’s Magazine per denunciare il clima di intolleranza e di gogna pubblica che avvelena la società negli ultimi tempi. Citano redattori licenziati per articoli controversi, libri ritirati con l’accusa di plagio, professori indagati per aver citato una particolare opera. E sottolineano che il solo modo di sconfiggere le idee sbagliate è lasciare spazio al confronto e alla critica, non mettere a tacere l’autore con violenza. Ma l’eco dell’intolleranza e del revisionismo non si allenta e arriva anche in Italia, limitatamente – per ora – ai banchi della politica. Tuttavia persino il Papa ha sentito il dovere di intervenire per arginare la deriva.
Il Papa e il “pensiero unico”
Bergoglio, nel suo discorso di fine anno al Corpo Diplomatico, ha infatti condannato “il pensiero unico costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee”. E ancora: si tratta di “una forma di colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione”. Il rischio, infatti, è che nel tentativo di proteggere le diversità si cancelli ogni forma di individualismo e di libertà di espressione. Non si costruisce il presente rinnegando il passato, ammonisce il Pontefice, poiché ogni gesto e parola devono essere interpretati e contestualizzati nel preciso momento in cui avvengono. E questo mentre a Padova – in nome della parità di genere – qualcuno fa notare che tra le statue di Prato della Valle manca una figura femminile.
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