Dai “se l’è cercata!” ai presunti comportamenti “esasperanti”, la nostra quotidianità – sia mediatica che reale – si riempie di giudizi a priori, stereotipi e fantomatici dati di fatto quando parliamo di violenza di genere.
La vera ed unica certezza è che ogni forma di violenza, a maggior ragione quella di genere e domestica, va sempre ripudiata e condannata, senza tentativi di giustificazione o dinamiche di vittimizzazione secondaria.
Un principio lineare e di una semplicità quasi disarmante, che però trova ancora grandi difficoltà ad affermarsi nel comune sentire.
Siamo riusciti a fare enormi progressi in campo scientifico e tecnologico, viviamo in un mondo che ci offre possibilità inimmaginabili anche solo in confronto a pochi anni fa, eppure come collettività non siamo stati in grado fare un passo molto più semplice: rivoluzionare l’immagine ed il ruolo femminile nella società.
L’idea della donna come debole o la sua visione come di una proprietà privata del compagno o dei familiari rimangono considerazioni ancora ben radicate nel pensiero collettivo: rientrano nei più classici stereotipi, considerati la causa primaria alla base degli atti di violenza, che sempre più spesso sfociano in femminicidi.
Il Parlamento europeo, in una Risoluzione approvata lo scorso settembre, evidenzia proprio che “la violenza di genere affonda le sue radici negli stereotipi di genere, nelle strutture eteropatriarcali (i sistemi in cui gli uomini e l’eterosessualità si trovano in posizioni culturalmente dominanti, ndr), nelle asimmetrie di potere e nelle disuguaglianze strutturali e istituzionali” e che questa interessa tutti gli ambiti della società.
Se non fossimo ancora abbastanza convinti, potremmo trovare ulteriori conferme nella Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, il più importante e completo trattato di natura internazionale elaborato per il contrasto della violenza di genere e domestica (e di cui quest’anno ricorre il decennale). Qui viene infatti evidenziato che la violenza contro le donne è “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”, e che la violenza ha una natura strutturale ed è uno dei meccanismi sociali che pone le donne in una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Abbiamo sufficienti elementi perché ci assalga il dubbio che – a questo punto – non basti pensare solo a misure di natura normativa per la prevenzione ed il contrasto alla violenza, ma che queste debbano essere naturalmente accompagnate da uno sforzo sociale e politico verso un cambiamento culturale.
UN Women, l’entità delle Nazioni Unite per la parità di genere e l’empowerment (inteso come potenziamento, presa di potere, rafforzamento) femminile, spiega che le idee, le norme ed i valori delle società influenzano ogni aspetto della vita e molto spesso, quando questi sono impliciti nella quotidianità, possono rendere le disuguaglianze e gli stereotipi difficili da riconoscere ed affrontare. Tali modelli e norme culturali possono allora plasmare ed alimentare le modalità con cui definiamo quale azione possa essere riconosciuta come molestia sessuale, cosa possa rientrare nelle sfere di maschile o femminile, per cosa valga la pena lottare o cosa dovrebbe essere semplicemente accettato come normale o inevitabile. Si innesta un meccanismo in cui la tolleranza, il silenzio, l’acquiescenza e la colpevolizzazione delle vittime prendono piede e diventano la normalità.
Simone de Beauvoir, scrittrice e femminista del Novecento, sosteneva che «donna non si nasce, lo si diventa». Ciò che la donna rappresenta nella nostra società contemporanea è frutto della cultura che plasma la realtà, e lo stesso vale per tutte le dinamiche che vive quotidianamente, comprese le molestie e la violenza.
La buona notizia è che la cultura, avendo una natura che possiamo azzardarci a definire “artificiale” poiché non innata ma costruita dalla società stessa, può essere allora plasmata, modificata e modellata.
E tale consapevolezza inizia ad arrivare anche ai “piani alti”: la pandemia, con tutto il suo negativo bagaglio di conseguenze sociali ed economiche, ha colpito principalmente le donne, portando alla luce del sole disuguaglianze non più celabili, insieme ad un aumento esponenziale dei casi di violenza. La politica e le istituzioni hanno dunque compreso di doversi risvegliare da un torpore che ha permesso che la parità di genere rimanesse a lungo un tema secondario e trattato in maniera frammentata e superficiale.
A livello istituzionale ci si inizia finalmente a liberare da quella visione per cui le donne appaiono come “una debole minoranza da tutelare”. No, le donne sono l’altra metà del tutto, le cui differenze devono essere valorizzate e non livellate o appiattite. È un processo di arricchimento per la società nel suo complesso. Ed è per questo che ogni fattore inibitore, come la violenza di genere, deve essere contrastato con ogni mezzo a disposizione. Promuovere un cambiamento culturale significa iniettare questa consapevolezza nel tessuto sociale.
Il Women 20, gruppo di lavoro dedicato alla parità di genere interno al G20 – il forum internazionale che riunisce le principali economie del mondo e di cui quest’anno l’Italia detiene la presidenza – ha dedicato una attenzione particolare proprio alla promozione di un cambiamento culturale, dedicandovi addirittura una commissione specifica.
Da dove iniziare, allora? Innanzitutto, dai sistemi educativi, a partire dalla primissima infanzia. Pensare a sviluppare programmi e campagne per affrontare gli stereotipi di genere, che mirano a eliminare pregiudizi e stereotipi inconsci (ed indirizzati sia a bambine che bambini, a ragazze e ragazzi), promuovere l’aggiornamento e la revisione dei testi scolastici, con un’attenzione particolare alla storia delle donne. Proprio su questo ultimo punto si muove la proposta della specifica Commissione sul Cambiamento Culturale: una revisione dei principali testi di studio destinati alle scuole medie inferiori e superiori, in modo che le studentesse e gli studenti di tutte le età possano conoscere la storia di “cento donne scomparse nei libri di scuola”.
Sempre nella cornice del G20, la presidenza italiana ha promosso per la prima volta l’organizzazione di una specifica Conferenza internazionale dedicata proprio all’empowerment femminile, al fine di innescare sul tema un confronto complessivo nella comunità internazionale. Un segnale forte, che segna il passo verso l’identificazione della parità di genere e dei diritti delle donne come prioritari nella politica internazionale.
In Italia, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (che tutti siamo abituati ormai a chiamare PNRR) individua nella parità di genere una delle cosiddette priorità trasversali, ossia una delle chiavi di lettura funzionali per il raggiungimento di tutti gli obiettivi del Piano, con particolare riferimento alla Missione 5 ,“Coesione ed Inclusione”. Nell’ottica di concretizzare quanto definito nel PNRR, è divenuta operativa da poche settimane la nuova (e prima!) Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021-2026, voluta dalla ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che nella sua essenza rappresenta una cornice che abbraccia numerose misure orientate – nel loro complesso – ad un cambiamento di visione culturale.
Alcuni esempi: si riconosce – a ragione – la presenza di una “questione maschile”, che deve essere presa in considerazione ogni qualvolta si ragiona su misure tese ad aumentare la parità di genere, perché gli uomini se ne facciano uguali promotori e sostenitori, a tutto vantaggio di un equilibrato cambiamento sociale; si parla di revisione dei requisiti dei libri di testo, per incentivare gli editori a garantire visibilità alle donne ed incoraggiare messaggi di parità ed uguaglianza; si incentiva la promozione trasversale del principio di parità di genere in ogni ordine e grado di istruzione.
La Strategia comprende ovviamente molto altro: la riduzione del gap salariale di genere, incentivi all’imprenditoria femminile, metodi di riequilibrio degli oneri di cura familiari (ad esempio, congedi di paternità, fondi per gli asili nido e detrazioni per caregiver e babysitter).
A questo punto, appare superfluo porci la domanda: “e cosa hanno a che fare queste misure con il contrasto alla violenza?”.
Ma in caso la domanda sorgesse inesorabilmente spontanea, la risposta sarebbe un semplice: “tutto”. Ritorniamo al punto di partenza. Ogni piccolo passo, ogni misura di supporto, ogni tentativo di modificare lo status quo a favore delle donne, contribuisce al cambiamento culturale, e dunque all’eliminazione di tutti quegli stereotipi – limitati e limitanti – che sono il nutrimento principale della violenza di genere.
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