Studioso di Storia Contemporanea, ricercatore all’Università di Torino, nel suo ultimo libro Bruno Maida racconta l’operazione di solidarietà che, fra il 1945 e il 1948, portò oltre 20mila bambini ad essere ospitati presso famiglie diverse da quelle di origine. Lì trovarono accoglienza, cibo e cure.
Fra il 1945 e il 1948, fra i 20 e i 30mila bambini italiani in condizioni di estrema povertà diventano parte di un progetto di solidarietà realizzato dall’Udi, l’Unione delle donne italiane, e dal Partito Comunista. Prima da Milano e da Torino, poi da Roma, Cassino e Napoli, questa infanzia privata delle condizioni minime di sussistenza a causa della guerra, lascia temporaneamente le famiglie d’origine per essere accolta e ospitata presso altre famiglie della piccola borghesia operaia, soprattutto in Emilia Romagna. È un piano ambizioso e delicato, che avrà successo grazie alle donne che si spenderanno in prima persona nei territori e grazie anche ad una solidarietà diffusa, che andrà ben oltre l’appartenenza politica.
Il racconto di questa vicenda, che parla dell’infanzia e del dopoguerra italiano, è contenuto nell’ultimo libro di Bruno Maida, edito da Einaudi, intitolato I treni dell’accoglienza. Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948.
Ricercatore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Torino, Maida si è già occupato dei bambini in guerra nelle sue opere precedenti, L’infanzia nelle guerre del Novecento e La shoah dei bambini, e oggi aggiunge un nuovo tassello alla scoperta dell’identità dei più piccoli, protagonisti e non soggetti passivi di un pezzo della storia d’Italia.
Nell’ambito dei Webinar di Spazio50 lo abbiamo incontrato virtualmente per farci raccontare, attraverso la sua ultima opera, la storia dei bambini e delle donne che presero parte a quella straordinaria operazione.
«Il contesto italiano è quello di tutta l’infanzia europea – spiega Bruno Maida – non dobbiamo dimenticare quello che è stata la Seconda guerra mondiale, che non ha eguali col passato quanto a distruzione e numero di vittime. Le macerie non sono solo simboliche ma reali, e c’è una condizione che accomuna i bambini del dopoguerra, che sono orfani, profughi e poveri, dove queste tre condizioni sono spesso intrecciate. L’Italia vive una condizione doppiamente complessa non solo perché è un Paese profondamente colpito dalla guerra, dalle distruzioni e dalle occupazioni, ma perché è anche profondamente diviso economicamente e socialmente fra Nord e Sud già da tempo. La situazione dei bambini è visibile soprattutto nelle periferie delle grandi città, come nelle campagne del Sud, dove mancano tutti gli elementi di base ai quali l’infanzia deve avere diritto: cibo, vestiti, casa, scuola, condizioni che saranno ribadite di lì a poco nelle convenzioni internazionali».
Entriamo nel vivo della storia raccontata nel suo libro: cosa sono i treni dell’accoglienza?
Questo libro racconta di un’operazione realizzata dal Partito Comunista e in particolare dall’Udi, l’Unione delle donne italiane nata nel 1944 nella Roma già liberata, che ebbero l’idea di fare accogliere un certo numero di bambini, all’inizio pensavano poche centinaia, anche se poi saranno fra i 20 e i 30mila, in diversi luoghi d’Italia, in modo da garantire ai più poveri la possibilità di trascorrere un inverno, o anche solo qualche mese, presso altre famiglie dove sarebbero stati accolti, sfamati, vestiti; e alle loro famiglie di avere per un po’ di tempo un carico meno gravoso sulle spalle.
L’iniziativa prende il via nell’autunno del 1945, a Milano, quando le donne comuniste e in particolare Teresa Noce, con un passato straordinario da antifascista in Spagna e in Francia, deportata a Ravensbruck, moglie di Luigi Longo, uno dei grandi dirigenti Pci, decidono di far accogliere alcuni bambini delle periferie milanesi da famiglie dell’Emilia Romagna. Recandosi in Emilia scoprono che la disponibilità delle famiglie e delle federazioni di partito permetterà di accogliere migliaia di bambini. Questa esperienza sarà ripetuta a Torino, con altre migliaia di bambini che andranno a Bergamo, Mantova e Cremona.
Alla fine del 1945 durante il quinto Congresso del Pci, Teresa Noce racconterà questa storia, e Togliatti e gli altri capiranno che può essere applicata anche al Sud, per realizzare quel partito nazionale e popolare, interclassista, e non più solo legato alle masse operaie, che si auspicava. Proprio durante quel Congresso, i delegati di Cassino, una delle città più colpite dalla guerra, racconteranno della loro situazione e chiederanno aiuto. L’operazione dei treni per il Sud partirà da Roma e toccherà Cassino e Napoli, fino a diventare un progetto nazionale.
Nei racconti e nelle testimonianze dei bambini che salgono sui treni dell’accoglienza e che raggiungono le famiglie ospitanti, ricorre spesso l’elemento della fame, nel passaggio dalla miseria della propria condizione a una situazione del tutto nuova, dove il cibo è elemento centrale…
La fame è uno di quegli elementi che cambia la capacità di guardare il mondo, ma è anche uno dei grandi linguaggi e strumenti di incontro tra le persone. Quei bambini non si ritrovano presso famiglie ricche, perché parliamo della piccola borghesia operaia dell’Emilia Romagna in particolare, ma in queste case c’è il cibo, si mangia tutti i giorni e lo si fa a tavola.
Spesso nelle famiglie poverissime di provenienza mangiare era un’operazione rapida e non conviviale o relazionale. Il cibo diventa dunque uno strumento di salute ma anche di incontro. Una delle immagini che mi ha più colpito di queste storie è quella di un bambino che a tavola con la nuova famiglia, prende la pasta rimasta nel recipiente e se la mette in tasca. È in fondo l’immagine che ritroviamo in Miseria e nobiltà di Totò, con gli spaghetti che gli escono dalle tasche, segno di quell’esordio di possibilità di accesso al benessere, che non è ancora benessere vero, ma in qualche modo anticipa quello che sarà il miracolo economico.
Ha avuto modo di incontrare alcuni di questi bambini di allora?
Sì e sono stati incontri bellissimi perché questi bambini, oggi signori e signore di una certa età, hanno scoperto che la loro storia faceva parte di una storia collettiva e non ne avevano idea. Ci sono diversi elementi che mi hanno colpito nei loro racconti: ad esempio una donna che poi si è trasferita definitivamente a Modena parlava con grande sentimento delle due mamme e dei due papà; un uomo aveva ancora uno sguardo di felicità, dopo settant’anni, nel raccontare come la famiglia ospitante lo avesse rivestito all’arrivo.
In questo racconto, oltre ai bambini che ne sono protagonisti, emerge il ruolo centrale delle donne, che si ritrovano non solo ad organizzare un’operazione complessa di solidarietà, ma anche a sfatare sul campo i pregiudizi circa il “mondo comunista” delle famiglie che dovranno affidargli temporaneamente i propri figli. Come viene svolta questa azione di conquista della fiducia?
L’Udi non nasce come organizzazione di massa del Partito Comunista, ma all’inizio doveva essere un’organizzazione di donne, ognuna portatrice di identità politiche diverse. Solo progressivamente diventa rappresentativa delle donne socialiste e comuniste e poi solo comuniste. È chiaro che in Emilia i bambini andavano in città dove per il 90% si votava comunista, ma non era sufficiente perché era la società nel suo complesso che accoglieva, e ognuno faceva la sua parte anche se poi non aderiva necessariamente al Pci. E infatti i bambini arrivano in questi paesi dove il calzolaio gli fa le scarpe, il sarto gli cuce il vestito, l’autista di bus li accompagna a scuola.
Il nodo centrale non era solo organizzare il trasporto dei bambini, che pure non era semplice con i mezzi dell’epoca, ma significava conquistarsi la fiducia. Immaginiamoci delle donne sconosciute, comuniste, quindi sospette nell’immaginario collettivo popolare, che andavano nelle case e dovevano convincere le famiglie a lasciargli i loro figli che sarebbero stati portati dall’altra parte dell’Italia.
C’è una storia emblematica a questo proposito: a Napoli la donna che guidava i monarchici era la “Pachiochia”, la chiamavano tutti così e credo che nessuno sapesse il suo vero nome. Aveva guidato le donne a distruggere la federazione comunista di via Medina prima del referendum del ‘46, e le compagne dell’Udi sapevano che bisognava passare attraverso il suo benestare per realizzare il progetto dei treni a Napoli. Per convincerla la invitano a partecipare ad uno dei viaggi verso l’Emilia, e questo servirà ad ottenerne l’appoggio, anche se la Pachiochia non sarà mai comunista.
Ciò che è accaduto, a mio avviso, è politica nella sua parte migliore, capace di tenere insieme una visione del mondo, un’ideologia, e misurarsi con i problemi delle persone provando a risolverli.
Queste donne coraggiose ribaltano lo stereotipo: perché anche nel Pci c’era il maschilismo, si pensava sempre che le donne dovessero occuparsi della dimensione familiare e della cura, ma in questo caso occuparsi dei bambini diventa una forma straordinaria di protagonismo politico. I due elementi solidaristico e politico si affiancano.
Cosa è cambiato da allora, in Italia, nell’approccio alla solidarietà?
Gli anni della ricostruzione in Italia sono interessanti perché sono anni in cui tutto è possibile, e infatti è proprio in quel periodo che si definisce un modello di ricostruzione, che poi lascerà purtroppo sullo sfondo il protagonismo femminile, con le conseguenze che vediamo ancora oggi di scarsa presenza femminile nei luoghi apicali del potere.
L’operazione dei treni dell’accoglienza finisce nel 1948 con la rottura dell’unità antifascista, quando cambia il clima; sarà poi applicata in altri contesti. Per esempio durante gli scioperi operai che portano a degli arresti o in Sardegna, con gli scioperi dei minatori, oppure a seguito di grandi catastrofi come l’alluvione del Polesine o quella in Calabria.
Se vogliamo possiamo leggere la storia dei treni come punto di un racconto non lineare che parte dall’inizio del Novecento, con il trasferimento dei bambini durante gli scioperi dei contadini in Emilia Romagna, che da Parma vengono mandati a Genova. Ci sono poi i bambini di Vienna accolti nelle famiglie italiane. La solidarietà per l’infanzia passerà anche da Chernobyl in anni più recenti, e arriverà all’oggi con le famiglie che aiutano gli stranieri, li accolgono. Insomma la solidarietà ha radici varie, soprattutto umane, e ci accompagna, pure con tutte le contraddizioni, proprio perché siamo in un Paese che ha conosciuto la povertà e l’emigrazione come tratti fondanti della sua storia.
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