Antonio Borghesi.
Direttore dell’area informatica presso un famoso brand francese e poi esperto subacqueo. Ora che è in pensione si dedica alla sua passione che è la scrittura. Partecipa al Concorso 50&Più per la settima volta. Vive a Firenze.
Violet si era ritrovata nel mezzo di una lunga fila di gente, in quell’enorme stanza, all’apparenza una portineria, per via di quel gabbiotto vetrato da dove un tizio, dalla corporatura massiccia e dalla folta barba bianca, sembrava controllare l’apertura di un portone, apparentemente l’unica via d’uscita da quell’ambiente.
Per lei che veniva da un posto dove tutto era tendente al grigio, il bianco luminoso di quel locale, era già un gran cambiamento.
Non certo traumatico come quello di pochi giorni prima quando una polmonite fulminante l’aveva portata alla morte in un misero letto del Mile End Hospital di Londra.
Ricordava perfettamente di essere svenuta in un altro misero letto, quello di casa sua, dove aveva portato, per un venale rapporto sessuale, un cliente appena catturato al Pub The Crown, in Commercial Road.
Fare la prostituta era il suo unico sistema per sopravvivere a quella tremenda miseria che l’aveva perseguitata sin dalla morte di sua madre, lasciatala adolescente e priva di un padre conosciuto, Louise Champollion, “Maman”, era di origini francese. Le aveva appreso la sua armoniosa lingua e aveva insistito perchè lei studiasse. Le diceva sempre che quella sua acuta intelligenza, senz’altro la sola eredità del loro celebre avo, aveva bisogno di essere nutrita. Forse più di quel suo corpo che iniziava ad assumere delle forme molto aggraziate e che l’avrebbe portata a scelte facili e molto probabilmente sbagliate.
“Maman” aveva visto giusto in entrambi i casi.
Violet frequentava i peggiori pub di London Port e allo stesso tempo la Public Library di Limehouse, l’infimo quartiere dove la madre le aveva lasciato quel monolocale che lei chiamava “loft”, ironizzando sulla propria miseria così come ironizzava sul fatto che i suoi due preferiti luoghi di frequentazione iniziassero entrambi con le stesse tre lettere.
Passava una buona parte della mattinata alla Public Library immersa nella lettura dei suoi autori preferiti: Agatha Christie, Arthur Conan Doyle, Christofer Bailey, Anne Perry, Philip Mac Donald e tanti altri, accomunati da quel genere investigativo nella risoluzione di omicidi apparentemente privi di logica.
Curiosa delle nobili radici del suo cognome, si era anche appassionata alla storia della Francia e, quel particolare periodo napoleonico, nel quale aveva vissuto il suo antenato Jean-François, non aveva più nessun segreto per lei.
Questo era però il passato e poteva anche aggiungere quella frase fatta del “morto e sepolto”, che al momento le aderiva alla perfezione.
C’era stato un po’ di trambusto prima della sua partenza da quel Limbo dove l’avevano trattenuta per quasi tre giorni prima di concludere che il suo “meretricio” fosse solo causato da forza maggiore e quindi che non fosse destinata al secondo cerchio dell’Inferno.
Il trambusto era dovuto all’arrivo della buonanima di Winston Churchill, portato via da un ictus il 24 gennaio del 1965. Il giudizio su di lui probabilmente avrebbe preso molto più tempo e, visto il tipo che era, non era nemmeno sicura che se lo sarebbe ritrovato al suo fianco per l’eternità.
Ora era lì, un po’ annoiata dalla lunga attesa ma certa ormai di aver diritto a un posto fisso, in quel così tanto decantato luogo che si nascondeva dietro quel portone: il Paradiso.
Girandosi aveva scoperto che dietro di lei c’era una vecchietta rivestita di abiti logori che sgranava fra le dita un consunto rosario di pietre nere. Una beghina di nessun interesse. Allora si era nuovamente girata concentrandosi su quella grande macchia rossa, apparentemente di sangue ormai secco, che spiccava sull’antico abito talare dell’uomo che la precedeva. Aguzzando lo sguardo aveva scorto come una lacerazione nel vestito, forse fatta da un coltello o un pugnale.
Che mai ci poteva fare nella portineria del Paradiso un uomo morto ammazzato? Secondo lei, in una rissa, in qualsiasi forma si girasse la questione, le colpe si potevano sempre attribuire a entrambe le parti. A meno che non fosse stato un assassinato premeditato. Qualcuno che voleva del male a quel prete? Sì ma in che periodo della storia? Era sicurissima che quel tizio non fosse della sua epoca. Sembrava però di quella che lei preferiva: la napoleonica.
Violet non stava più nella pelle. Beh sì, si accorse che quel detto non poteva più appartenerle ma era esattamente come si sentiva. La sua anima, e che altro se no, investigativa voleva saperne di più e così batté sulla spalla del tizio obbligandolo a girarsi.
«Excuse me, Sir», esordì nella propria lingua.
«Oui, Madame?», interloquì l’altro.
Lei conosceva il francese ma le parve che quelle due parole fossero più la manifestazione di un pensiero che non un reale parlato e così continuò.
«Mi chiamo Violet Champollion e mi chiedevo se si fosse accorto che la sua veste è macchiata e lacerata proprio all’altezza dei reni?».
«Sì signora. Sono l’abate Augustin Cadoudal, un prelato francese. Sono morto per una pugnalata alla schiena ed è per quello che la mia veste talare è strappata e macchiata. Preso di sorpresa e alle spalle, non so nemmeno chi mi abbia ucciso!».
«Incredibile. No padre, mi scusi, ma non riesco a capire. Anche se l’hanno colpita senza che lei vedesse il suo assassino, una qualche idea dovrebbe averla. Mi scusi se glielo chiedo, dato che non sembra appartenere alla mia epoca, lei quando è morto? E magari anche dove?», stava applicando la classica regola del chi, quando, dove e perché.
«Ha ragione signora. Sono morto il 26 maggio del 1805».
«Come? 160 anni fa? E mi scusi dove è stato tutto questo tempo?».
«In Purgatorio. Ho dovuto scontare parecchi peccati veniali. Io sono un abate ma allo stesso tempo un uomo e, non voglio certo metterla a parte dei miei peccati, ma mi creda, signora, non sono di sicuro mai stato un santo».
«La capisco e certamente non voglio entrare nella sua vita ma, se vogliamo arrivare al suo assassino, mi dica almeno dove si trovava quando l’hanno pugnalata».
Oramai l’investigazione era partita e Violet non riusciva più a trattenersi con le domande. Voleva scoprire, con tutta la sua anima, chi avesse ucciso quel prete.
«Ah sì! Mi scusi me l’aveva già chiesto. Ero a Milano per una grande cerimonia».
«Beh mi lasci indovinare: la data della sua morte mi porta dritta all’incoronazione a Re d’Italia di Napoleone Buonaparte. Fu proprio quel giorno preciso. E lei dove era esattamente».
«Ero nel Duomo di Milano ad assistere a quella cerimonia ma mi ero nascosto sulla balconata dell’organo. Non credo che nessuno si sia accorto che mi abbiano pugnalato. Lo fecero durante il Te Deum e nascosero il mio corpo dietro le canne dell’organo. Fui portato via due giorni dopo da degli sconosciuti che buttarono il mio cadavere nel Naviglio Grande. Non fu mai più ritrovato».
«Aspetti un attimo! Come sa del seguito? Io dopo la mia morte non ho visto nulla di quello che ha riguardato il mio corpo. La mia anima è stata accompagnata direttamente al Limbo da un essere immateriale».
«Anche per la mia successe la stessa cosa ma al Processo di Smistamento, prima della condanna al Purgatorio, analizzarono tutta la mia vita e fu lì che conobbi anche quei particolari».
«Beh, certo! Nel mio caso non ci fu molto da analizzare. Inoltre fui assolta per la preterintenzionalità dei fatti».
«Non capisco. Lei mi sembra una investigatrice. Posso chiederle quale fosse il suo peccato mortale ritenuto però preterintenzionale?».
«Certo! La prostituzione! Faccio, o meglio facevo, la meretrice ma mi assolsero per causa di forza maggiore: la mia vita miserabile. Ed eccomi qui. Se permette però tornerei al suo caso che è molto più appassionante. Che ci faceva nascosto nel Duomo di Milano il giorno dell’incoronazione di Napoleone Buonaparte?».
«Una meretrice! Ma che dico? Se Lui l’ha perdonata chi sono io per giudicare? Ebbene, signora, deve sapere che ero stato trasferito a Milano al servizio del Cardinale Bellisomi, colui che portò la Corona di Ferro in Duomo e quindi ne approfittavo per…».
«… uccidere Napoleone?».
«No di certo! Lei forse mi confonde con un mio zio: George Cadoudal, un fanatico realista che aveva partecipato alla congiura contro l’Imperatore, organizzata del Duc D’Enghien…».
«Aspetti un attimo! Conosco questa storia: in effetti il Duca non c’entrava nulla con la congiura ma Napoleone, che l’aveva in odio poiché gli aveva fatto guerra come emigrato residente in Germania, lo fece fucilare ugualmente come traditore della patria. In effetti il capo congiura fu il Duca di Berry ma anche lui fu ucciso da un fanatico che lo pugnalò per ordine dello stesso Napoleone…».
«Questo io non l’ho mai saputo. È lei, signora che lo dice…».
«Lo dicono i libri di storia! Comunque non vedo in tutto questo, se lei non partecipò a nessun complotto, chi potrebbe averla uccisa».
«Me lo chiedo anch’io da oltre centocinquant’anni».
«Lei però si chiama Cadoudal come quel suo zio congiurato Non credo che basti, comunque! Ci vogliono delle prove. Almeno che lei partecipasse a delle riunioni di realisti per congiurare contro Napoleone».
«Mai fatto né assistito a riunioni di tale fatta. Tenga presente che alla mia epoca, come Ministro della Polizia, avevamo Joseph Fouché, al quale non sfuggiva nessun complotto, dovuto alla sua ben organizzata rete d’informatori. Io non potevo essere certo nel loro mirino».
«Questo non lo può sapere! Magari inconsapevolmente, nella sua cerchia d’amici ne aveva qualcuno realista e Fouché, avendolo appreso, la controllava per prenderla in castagna».
«Non capisco questa cosa della castagna…».
«In difetto!».
«Ah sì! Comunque io avevo tagliato tutti i legami con la mia famiglia e mi dedicavo solo ai miei compiti ecclesiastici. L’unica cosa che mi ricordava tutti i giorni la mia appartenenza ai Cadoudal era una Bibbia che mi aveva fatta pervenire mio zio ed era un regalo del Duc de Berry per il giorno della mia consacrazione».
«E dov’è ‘sta Bibbia?».
«Beh non certo qui con me! E comunque prima di partire per Milano non l’ho più trovata».
«Aveva qualcosa di particolare quella Bibbia?».
«Niente: solo una dedica scritta di pugno da Charles Ferdinand Duc de Berry, che si può intendere come un consiglio per aiutare i più deboli».
«Se la ricorda?».
«Certamente: “N’oubliez jamais que le nabot à peur”. Io l’ho intesa come: non dimenticare mai che il piccoletto ha paura».
«All’apparenza ma non è così. Credo che sia proprio stata la sua condanna a morte».
«Quella stupida frase?».
«Oui Monsieur l’Abbé: proprio quella stupida frase».
«E perchè».
«Perché insultava Napoleone ed era un riconoscimento tra realisti».
«Volete dire…».
«Nabot à peur: se l’anagrammate, ottenete Buonaparte e poi “nabot” come saprete vuol dire soprattutto nano».
«Un doppio senso offensivo!».
«Un doppio senso mortale!».
«Già».
«Aspetti! Mi sembra d’aver sentito chiamare il suo nome. Ci vediamo al di là di quel portone».
«Grazie Violet. Ci vediamo senz’altro. Credo che avremo anche un po’ di tempo per chiacchierare».
«Lo credo anch’io. Vada, prima che la lascino fuori…».
«Saint Pierre, me voilà».
“Ma guarda un po’, dovevo proprio morire per cambiare mestiere”, pensò Violet sicura di trovare molti altri casi irrisolti in quell’eternità che l’aspettava.
Non si sarebbe certo annoiata!