Antonio Borghesi.
Direttore dell’area informatica presso un famoso brand francese fino al 1990 e poi esperto subacqueo fino al 1999. Ora che è in pensione si dedica alla sua passione che è la scrittura. Partecipa al Concorso 50&Più per la sesta volta. Vive a Firenze.
Era quello che tutti definivano “na’ carogna”, ma quella fine così cruenta forse non la meritava.
Si era creato una fama da duro ma vigliacco perché era cattivo, soprattutto con la sua donna e i suoi quattro figli ancora piccoli.
Li picchiava poi, come se nulla fosse, se ne andava a cacciare sott’acqua.
Diceva di essere un subacqueo ma anche in quel campo la sua vigliaccheria era grande, invece di usare i suoi polmoni e scendere in apnea, usava bombole e fucile ad aria compressa.
Aveva una piccola barca con motore fuoribordo e con quella andava a cacciare, di frodo ovviamente, a Punta Campanella, dove c’era la riserva e quindi con prede molto facili da catturare.
Lui non si accontentava di uccidere solo quelle necessarie a sfamare la sua famiglia ma tutte quelle che poteva, che poi rivendeva ad amici compiacenti della costiera sorrentina proprietari di ristoranti e con quello che ricavava manteneva solo i suoi vizi: fumo e donne di malaffare.
Quando gli finivano i soldi, un po’ di spaccio di marijuana gli rimetteva in tasca qualche centinaia di euro per continuare la “bella vita”.
Alla famiglia in effetti non portava mai nulla.
Ci doveva pensare quella povera donna della moglie, sfiancandosi nei lavori pesanti di pulizia. Faceva parte di una cooperativa composta da altre donne, sfruttate come lei e gestita da un piccolo malavitoso di Castellamare di Stabia.
Quando ritrovarono il corpo di Vito, galleggiante a faccia in giù vicino allo scoglio Scruopolo, pensarono a un malore da eccessiva profondità.
A un primo esame superficiale, l’attrezzatura subacquea era ancora in perfetto stato e il manometro dell’aria segnalava la metà del contenuto della bombola. Apparentemente nessun guasto all’erogatore.
Il corpo era stato in acqua a lungo e solo l’esame dell’anatomopatologo rivelò la presenza di una mezza dozzina di ferite da lama da taglio, di cui una direttamente al cuore e mortale.
Chi avrebbe potuto avere interesse a uccidere Vito?
Molti, era la risposta immediata vista la vita di violenza e vizi del disgraziato.
Il secondo classico quesito era il famoso perché e la risposta era sempre la stessa, solo che l’uomo non aveva nessun valore e la sua morte non avrebbe portato alcun beneficio a chi lo frequentava.
La moglie fu subito esclusa. Il suo alibi era inattaccabile. Dalle cinque del mattino era al lavoro e la sera i vicini di casa l’avevano vista come al solito cenare nel proprio basso.
Dove era stato ucciso Vito?
In mare o portato lì da qualcuno che l’aveva accoltellato a terra?
Apparentemente in mare, vicino allo scoglio in quanto la muta subacquea al neoprene che indossava era stata attraversata dalle coltellate, anche se, pure questo fatto, avrebbe potuto avere la spiegazione opposta.
Vito si vestiva sempre a terra e poi saliva sulla sua barca per la caccia.
Qualcuno avrebbe potuto attenderlo e, una volta ucciso, trasportarlo fino allo scoglio e gettarlo in mare. L’assassino avrebbe dovuto però portarlo con un’altra barca poiché quella di Vito l’avevano trovata all’ancora, vicino al luogo dove si era immerso.
C’era da prendere in esame anche quella bombola dell’aria consumata fino a metà, da cui si deduceva che Vito la sua immersione, l’aveva almeno parzialmente compiuta.
Magari un altro sub l’aveva raggiunto mentre lui era occupato a cacciare e l’aveva ucciso?
Se questa tesi fosse stata quella corretta ovviamente sarebbe stato un omicidio premeditato e si tornava a chi ne avrebbe guadagnato dalla sua morte.
Si sa che le prime settantadue ore dalla scoperta di un omicidio sono le più importanti per arrivare all’assassino.
Qui però non c’erano nemmeno le telecamere di banche, bar e ristoranti da poter analizzare per ottenere qualche indizio.
Erano intervenuti anche i carabinieri subacquei scendendo a esplorare intorno allo scoglio alla ricerca di elementi utili alle indagini.
Avevano trovato solo un fucile ad aria compressa con la fiocina fuoriuscita ma ancora attaccata alla sagola. Erano riusciti ad attribuirlo a Vito risalendo a chi glielo aveva venduto, ma null’altro.
Forse aveva sparato al suo assalitore, senza colpirlo, in quanto la fiocina non portava alcuna recente traccia organica.
Fu immagazzinata con tutte quelle altre evidenze trovate sui luoghi dei reati.
L’esame autoptico aveva rivelato che le ferite d’arma da taglio erano slabbrate e probabilmente inferte da uno di quei coltelli seghettati di uso comune tra i subacquei.
L’arma però non era stata ritrovata e le ricerche furono indirizzate a quel background di patiti d’immersioni, soprattutto tra i cacciatori di frodo.
Le bocche rimanevano cucite o forse non sapevano veramente nulla, anche se, a quelle latitudini, la prima teoria era quella senz’altro più probabile e gli investigatori non avevano ricavato nessun nuovo elemento per proseguire nelle indagini.
L’interesse iniziale andava scemando, soprattutto tra chi aveva conosciuto Vito, anche perché nessuno ne sentiva veramente la sua mancanza.
Nemmeno la sua famiglia.
Dopo tre mesi, il fascicolo stava prendendo la strada dell’archivio polveroso dei cold case quando, dalla Polizia della cittadina di Beaulieu-sur-Mer, sulla costa azzurra francese, arrivò una richiesta d’informazioni.
Antoine, un pescatore d’altura professionista, aveva catturato una grossa preda: un pescespada di oltre cento chili.
Incastonata sul rostro avevano trovato una catenella d’oro con una medaglietta dedicata a San Gennaro.
Portava incisa una data: 28/11/75, un luogo: Castellamare di Stabia e un nome: Vitaliano Esposito.
La Natura si era vendicata di quel “uapp e cartone”!