Marinella Bongiolatti. In pensione da sette anni, si dedica alla sua passione: scrivere. Partecipa al Concorso 50&Più per la terza volta; nel 2019 e nel 2020 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Berbenno di Valtellina (So).
Nel 1945, a guerra finita, mia madre Irene decise con suo fratello Mario di intraprendere l’attività di panettiera. Si rese conto però, che questo non le avrebbe garantito un futuro. Decise quindi, all’età di diciotto anni, di cercare la fortuna in Svizzera, dove alcune delle sue amiche erano già emigrate, con alterne fortune. Un suo vicino di casa, che lavorava nel Canton Ticino, grazie a delle conoscenze in loco, le trovò un lavoro nella capitale, a Berna. Dopo aver ricevuto il contratto, Irene partì una mattina presto in treno, verso Chiasso, via Milano. Era la prima volta che lasciava la sua casa e la famiglia e, seduta su quel treno che la stava portando lontana, era piena di tristezza e di paura. Più si allontanava dalla sua valle il paesaggio mutava, dalle montagne al lago e la sua paura si tramutava in speranza mista all’eccitazione dell’inconscio. Quella sensazione che solo chi ha intrapreso un viaggio così, per cambiare la propria vita, può conoscere. Arrivò alla stazione di Chiasso verso mezzogiorno, dove avrebbe dovuto prendere la coincidenza che l’avrebbe portata velocemente verso Berna, ma le guardie svizzere fecero scendere tutti gli stranieri dal treno. Accompagnarono lei e altre donne in un grande stanzone vuoto dove ordinarono a tutte loro di spogliarsi. Le obbligarono a fare la doccia e una radiografia. Aspettarono delle ore con una coperta sulle spalle, in attesa dello sviluppo della lastra. Irene aveva freddo, non era mai stata nuda con delle persone estranee, così lontana da casa e dai suoi cari. Anche le altre donne erano imbarazzate e timorose come lei. Successivamente le aprirono la valigia e la disinfettarono con il DDT. Non ancora contenti la visitarono usando dei bastoncini di legno che facevano passare su tutto il corpo, evitando qualsiasi contatto. Le controllarono infine i capelli per vedere se avesse i pidocchi. Nemmeno un bicchiere d’acqua, neanche un pezzo di pane le venne offerto. Superata la visita e avendo perso la coincidenza, dovette aspettare un altro treno, così giunse solamente a notte inoltrata a Berna. Alla stazione, per fortuna vi era il marito della sua padrona che l’aspettava. Rimase con questa famiglia solamente sei mesi, perché parlando con altre ragazze si era resa conto che la loro paga era il doppio della sua; la assunsero in una pasticceria-panetteria, dove vi erano impiegate dodici persone: commesse, panettieri, fattorini e i tre proprietari. Il suo compito era quello di cucinare per tutti e di occuparsi delle faccende domestiche: era faticoso e non vi erano momenti di pausa o giornate di riposo. Inoltre si mangiava poco e male.
A colazione il personale doveva accontentarsi di pane mezzo bruciato con latte, a mezzogiorno verze, crauti, patate e wurstel e alla sera zuppa di fiocchi d’avena o di latte con poco pane. Mai avrebbe pensato di soffrire ancora la fame: l’aveva già provata a casa sua e intraprendendo questo viaggio, sperava diversamente. Un giorno la padrona ricevette in dono un cestino di mele che mise in un vassoio sopra un armadio. Era una tentazione troppo forte, la fame la attanagliava e i crampi allo stomaco la costrinsero a quel gesto: prese la mela e le dette un bel morso ma… ecco arrivare la padrona, impaurita e vistasi scoperta, si liberò subito del corpo del reato gettando prontamente la mela nella pattumiera. Ma l’occhio vigile della donna si accorse che ne mancava una. Si mise a urlare come una pazza, gridando: “Italiani! Avete perso la guerra voi e il vostro Duce e la Petacci. Morti di fame, ladri e delinquenti”. Decise quindi di licenziarsi e successivamente si sistemò presso la famiglia Rottisberg: marito architetto, moglie casalinga e due bambine. L’architetto ad inizio mese concedeva alla moglie un po’ di denaro, ma dopo una decina di giorni li aveva già finiti, cosi chiedeva a Irene di prestarglieli per pagare le spese. La padrona si alzava alle dieci e dopo averle portato il caffè usciva, lasciandole le bambine da accudire, i lavori di casa e di cucina. Ritornava in Italia solamente una volta all’anno. Qui, una sera, ritrovò il suo ex ragazzo e da quel giorno ricominciò la loro storia. Lui le scriveva sempre e le chiese se poteva trovargli una occupazione in Svizzera, dato che in Italia lavorava per suoi genitori, senza retribuzione. Il sindacato gli trovò lavoro in una fattoria vicino a Berna Nei giorni liberi andava a trovarla con la bicicletta, percorrendo 40 km. Giravano per Berna felici di essere insieme. Il padrone dell’azienda dove lui lavorava gli chiese di presentargli la sua fidanzata. Partirono quindi una mattina, su una bicicletta: il viaggio era lungo e faticoso per lui che pedalava, mentre lei era seduta sulla canna. La campagna svizzera era bella, verde e ben curata e i caprioli pascolavano in mezzo ai prati. Giovani e pieni di speranze, finalmente insieme in quella giornata di sole: uno dei più bei ricordi del tempo passato in Svizzera. Il 2 dicembre del 1950 ritornarono in Italia con l’idea di sposarsi e in una fredda mattina di gennaio si unirono in matrimonio. Speravano di non dover più emigrare, trovare altre alternative, ma Irene fu costretta a emigrare di nuovo. Questa volta trovò impiego come cuoca presso la casa di due avvocati.
La lontananza dal marito era dura e difficile da sopportare così lui decise di raggiungerla, pur non avendo un contratto. Tuttavia trovò un posto da manovale, ma non avendo i documenti in regola non aveva diritto all’alloggio: trascorreva quindi la notte con la moglie, di nascosto, nella camera che gli avevano assegnato. Occupavano un letto di una piazza e tante volte lei dormiva per terra per lasciarlo riposare. Purtroppo i padroni se ne accorsero e senza preamboli, venne licenziata. In seguito venne assunta da una famiglia con tre figli e le era stata assegnata una camera che aveva la fortuna di essere lontana dall’abitazione. Questo le permetteva di ospitare il marito, ma un giorno la cognata della padrona si accorse di un paio di pantaloni da uomo stesi ad asciugare e lo riferì immediatamente alla signora, che le fece una scenata. Per fortuna il marito entrò in possesso del contratto di lavoro, ma per renderlo valido doveva recarsi a Briga dove gli venne fatta la visita medica e dove gli consegnarono un documento per la polizia. La regolarizzazione del marito permise ad Irene di dare gli otto giorni di preavviso alla sua datrice, non prima di averle detto che era una donna crudele e senza cuore. Affittarono una camera in un condominio nuovo, in una mansarda. Dopo quindici giorni che vivevano li si sentiva pizzicare in tutto il corpo e non riusciva a dormire. Scoprirono che dietro la tappezzeria si erano annidate le cimici. A seguito della disinfestazione dovettero buttare tutto il cibo, ed un terribile odore rendeva l’aria insopportabile. Nel dicembre del 1951 il contratto era scaduto, rientrarono così in Italia con la speranza di cominciare una nuova vita. La situazione era però sempre la stessa ed inoltre Irene era incinta. Lui ritornò a Berna, ma sentiva la mancanza della moglie, la quale decise di raggiungerlo, sottoponendosi ancora una volta al supplizio della visita medica alla dogana. Si avvicinava il momento del parto che avvenne nel mese di maggio in ospedale: era una bambina. Tornarono quindi in Italia nella speranza di una vita migliore. La vita all’estero era stata dura, non conoscevano la lingua, non erano ben visti, ma nonostante tutto erano riconoscenti allo Stato che bene o male li aveva accolti e dato loro la possibilità di lavorare. Avevano imparato tanto e questo li aveva aiutati ad affrontare con più competenza e coraggio la nuova vita che incominciava per loro.