Marinella Bongiolatti.
In pensione da sette anni, si dedica alla sua passione: scrivere. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Berbenno di Valtellina (So).
Durante le sere d’inverno, quando la notte arriva presto, mia madre ama raccontare episodi della sua vita. Storie tristi, a volte tragiche, i suoi occhi si riempiono di lacrime tanto questi ricordi hanno lasciato in lei dolore e sofferenza.
Mio padre Carlo, nato nel 1903, era figlio illegittimo concepito dal rapporto tra mia nonna Maria e il figlio del padroncino dove lei lavorava come serva. Non si seppe mai se questo bimbo fu frutto dell’amore o della violenza. Il bambino venne dato a balia fino all’età di cinque anni.
Dopo pochi anni, nonna si sposò con il contadino che lavorava per il medesimo padrone. Il piccolo Carlo andò ad abitare con loro e dopo alcuni anni nacque suo fratello. Si sposò nel 1926 con mia madre Virginia e si accasò in casa del patrigno. Nel 1933 erano già nati quattro figli e la casa era diventata troppo piccola per una famiglia così numerosa, tanto che per dormire dovevamo recarci in un locale lì vicino, posto sopra una stalla, senza riscaldamento né servizi igienici.
Il primo ricordo risale a quando avevo tre anni; mia sorella Carmen era nata da poco e dormiva nella culla. Mia madre ormai esasperata dalla forzata convivenza, dopo l’ennesimo litigio con il fratello di mio padre, ne approfittò per andarsene. Si mise in spalla la culla e, con noi tre piccoli attaccati alla sua sottana, si rifugiò nella casa in piena fase di ristrutturazione che mio padre aveva comprato. Mia nonna materna prestò a sua figlia un paiolo per cucinare, essendo uscita dalla casa dei suoceri senza niente, non aveva neanche denaro, dato che mio padre consegnava a sua madre tutto il poco stipendio.
Col tempo papà, che era anche muratore, sistemò la casa rendendola abitabile. Eravamo una famiglia poverissima e noi piccoli avevamo sempre fame. La campagna da lavorare era poca, la mucca produceva poco latte, le uova delle galline venivano vendute per comprare il pane.
Quando avevo cinque anni, arrivò in paese un teatrino di marionette ed io e i miei fratelli pregammo a lungo i nostri genitori per avere il permesso di assistere allo spettacolo, solo dopo varie insistenze essi acconsentirono. Ci recammo quindi nella vicina osteria, la sala era strapiena di bambini urlanti. Seguivamo affascinati le vicende di Arlecchino e Pulcinella, le storie erano seguite con interesse e partecipazione da tutti noi, urla di gioia e di paura facevano seguito ai vari episodi. Tornammo a casa felici, bastava così poco per accontentarci. La domenica sentivamo la musica giungere dal bar sotto casa, ci piaceva vedere le coppie che ballavano valzer e mazurche. Suonavano col verticale e il mandolino. Per vedere le danze ci arrampicavamo sul davanzale della finestra, protetta da un’inferriata, alla quale potevamo stare aggrappati.
Se il proprietario si accorgeva di noi, usciva in strada il figlio che con un bastone ci colpiva sulle gambe facendoci scappare. Così, quando lui arrivava, correvamo a perdifiato nascondendoci dietro un muro. Appena l’uomo rientrava, ritornavamo al nostro punto di osservazione. Ballare era considerata una cosa scandalosa.
Le prime tre classi elementari si frequentavano nella scuola del paese, mentre per la quarta e la quinta bisognava recarsi a Berbenno a più di tre km dal paese. Ci si alzava la mattina prima delle sette e si partiva a piedi tutti insieme. D’estate calzavamo dei sandali di gomma color mattone, mentre d’inverno degli zoccoli di legno, con delle calze fatte con lana di pecora filata a mano, sempre pungenti. La cartella di stoffa veniva usata come slitta, perché sul ghiaccio gli zoccoli scivolavano troppo. Usavamo come una pista di bob il ruscello che fluiva vicino al sentiero. Era un divertimento scender giù a valanga strillando finalmente felici e spensierati. In classe invece era tutta un’altra cosa: quando non stavamo zitti il maestro era solito picchiarci con un bastone. I figli dei ricchi erano seduti davanti con i loro bei vestitini puliti, mentre noi poveri eravamo relegati negli ultimi banchi. Io non riuscivo a leggere quanto scritto sulla lavagna a causa dei miei problemi di vista. La sera a casa, si studiava con una lampadina di tre candele, con così poca luce i nostri compiti non erano mai al meglio, anche perché quando mia madre era in campagna dovevo curare i miei fratellini. Il latte della nostra macilenta mucca veniva portato tutto in latteria e a fine mese ci veniva dato in cambio una piccola forma di formaggio, che si metteva in cantina ad invecchiare. Noi bambini però ci recavamo di nascosto nello scantinato e tagliavamo dei piccoli pezzi per volta, ma dopo pochi giorni era già finita.
Nel 1938 mio padre fu richiamato al servizio militare e inviato in Francia, ma avendo cinque figli dopo alcuni mesi fu congedato. Giunta la notizia del suo ritorno, noi bambini ci recammo a piedi alla stazione dei treni, che era parecchio lontana dal paese, ad accoglierlo. Quella sera festeggiammo con un piatto che si mangiava solo nelle grandi occasioni; pasta condita con carne simmenthal, una vera prelibatezza. Nel dicembre 1938 nacque mio fratello Carlo. Non ci venne spiegato nulla del mistero della nascita. Quella sera, che faceva molto freddo, fummo mandati nella stalla del vicino per stare al caldo. Quando ritornammo, una vicina stava scaldando vicino alla stufa un neonato che teneva in braccio. Era così brutto, ma così brutto, che ci spaventammo tutti. Ci chiedemmo perché quella donna con la valigia avesse portato un bambino così orrendo in casa nostra. Il giorno seguente la mamma ci spiegò che era nostro fratello, nato col labbro leporino. Ad otto mesi Carlo che era diventato un bel biondino con gli occhi azzurri fu sottoposto ad intervento. I miei genitori si fecero prestare dal padrone novecento lire, perché l’operazione era a pagamento, i medici fecero un buon lavoro. Lo assisteva mia madre, un giorno mentre era uscita per rifocillarsi, lasciò in custodia il bambino all’infermiera, Carlo piangeva, così la donna infastidita, lo buttò violentemente sul fasciatoio, lo lanciò così forte che un punto si ruppe e la ferita si riaprì. Non vi erano più soldi per operarlo di nuovo. Quando ebbe quattro anni il mio piccolo fratellino morì di meningite.
Tra i ricordi, quello a me più caro non è Natale, ma l’Epifania, perché quando arrivava eravamo al massimo della felicità. Quella mattina ci si alzava prestissimo, con i miei fratelli si andava nella piazza vicino a casa, dove in attesa c’erano già altri bambini. Era ancora buio, il freddo pungente, la neve alta e le strade gelate. Eravamo felici e contenti, si scherzava tra di noi facendoci battute e scherzi. Avevamo tutti gli zoccoli e qualche maglione malmesso. Tutti insieme ci si recava nelle case dei contadini benestanti, si bussava alla porta e la signora ci veniva incontro con un paiolo pieno di castagne bollite. Ne distribuiva una manciata ad ogni bambino, noi le mettevamo nel sacchetto dello zolfo e si partiva per un’altra casa. Tutti sapendo dell’usanza, le donavano con generosità. La nostra famiglia non possedeva nessuna pianta di castagno e a quei tempi soltanto i padroni potevano raccoglierle. Quando finivamo il giro tornavamo a casa e le svuotavamo sul tavolo, tutti ne mangiavano e mai una festa ci pareva così bella come l’Epifania.
La terza domenica di novembre, si svolgeva in un paese vicino una grande fiera ed era l’occasione per comprare le cose necessarie che, durante l’anno, era difficile trovare nel negozio sotto casa. Mio padre ci si recava tutti gli anni e noi bambini esprimevamo i nostri desideri, con la speranza che si avverassero. Quell’anno sognavo delle scarpette di vernice nera, con un cinturino allacciato da un bottoncino dello stesso colore delle calzature. Le indossavano già due mie amiche e io sognavo di sfoggiarle nei giorni di festa. E chissà, magari il giorno dopo avrei potuto metterle per andare a scuola e far morire d’invida tutta la classe. Mi vedevo passeggiare con le mie amiche, con le mie bellissime scarpette nuove, accompagnate con delle eleganti e candide calzine bianche. A sì che sarebbero state bene!
Quel pomeriggio non finiva mai e correvo sul terrazzo nell’attesa di veder arrivare mio padre. Ogni scusa era buona per guardare fuori di casa. Non riuscivo a pensare ad altro, d’altronde me le meritavo, avevo fatto la brava tutto l’anno, accudivo i miei fratelli, sistemavo la casa, la sera, al buio, andavo da sola alla fontana a prendere l’acqua con un secchiello pesante; perché papà non avrebbe dovuto prendermele… Non avevo mai chiesto nulla, pretendevo solamente quelle scarpette. Contavo i minuti e tendevo l’orecchio nella trepida attesa di sentirlo arrivare. Lo vidi in strada di pomeriggio, sembrava soddisfatto degli acquisti. Questo mi faceva sperare ancora di più, forse questa volta, nulla avrebbe potuto separarmi dalle mie scarpette nere. Entrò in casa, tolse lo zaino dalle spalle e lo appoggiò a terra. Mi guardò e mise la mano all’interno del sacco.
Il tempo si era fermato, ancora poco e le avrei indossate! Ma dallo zaino, mio padre estrasse un paio di scarpe da uomo, orrende, bruttissime, di color marrone, di un materiale indefinibile, di tre misure più grandi della mia. Me le mostrò, portandole all’altezza del mio volto e disse: “Le ho prese più grandi, così anche i tuoi fratelli potranno usarle”. Non dissi niente, anche perché non avevo parole per esprimere quella sensazione e quel sentimento che provavo. Corsi in solaio e piansi tutte le mie lacrime finché non ebbi più neanche quelle; non avevo più neppure sogni. Uno schiaffo mi avrebbe fatto meno male. Alcuni giorni dopo provai le scarpe comprate da mio padre, ma erano così grandi che non riuscii mai a portarle.
Oggi ho novant’anni e di scarpe nella mia vita ne ho comprate e indossate tante, alcune comode, alcune belle, altre meno. Ma mai stupende come le scarpette di vernice nera.