Il Museo MAXXI di Roma celebra l’estro creativo di Bob Dylan. Un artista universale capace di “creare nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”
«Credo che la chiave del futuro risieda in ciò che resta del passato e che sia necessario padroneggiare i linguaggi del proprio tempo per poter acquisire un’identità nel presente». A parlare è quel ragazzo col cappello calcato sulla testa alla Huckleberry Finn, quel Robert Allen Zimmerman sbarcato a New York in un gelido inverno del 1961 lasciandosi alle spalle il Minnesota. Lo stesso che di lì a qualche tempo, per tutti, sarebbe diventato Bob Dylan: per molti, il più grande artista dell’ultimo secolo, eclettico, complesso. Una figura decisiva della cultura mondiale: indiscutibile cantore del pacifismo, sempre a sostegno dei diritti umani.
Ma la musica, che lo ha reso celebre, non descrive unicamente il volto di un artista, appunto, poliedrico. Alla figura di cantante, performer, si affianca infatti il volto forse meno noto: quello di artista visivo in grado di parlare alle nuove generazioni. La sua ricca produzione artistica – in mostra al MAXXI, il Museo delle Arti del XXI secolo, a Roma, fino ad aprile – ricostruisce un percorso creativo che si muove attraverso il tempo e lo spazio. Oltre cento opere, divise in otto sezioni, per la prima volta esposte in Europa.
L’ottantunenne Dylan continua, perciò, a far parlare di sé e lo fa attraverso le sue opere e le parole. «Volevo creare – dice – immagini che non si prestassero a essere male interpretate o fraintese» e, dunque, racconta il reale. Un reale fatto di grandi metropoli, paesaggi brulli e sterminati, binari della ferrovia, strade aperte, automobili, camion e pompe di benzina. Ma anche motel, baracche, negozi e bar, cortili, cartelloni pubblicitari e insegne al neon. Ha ritratto, negli anni, l’America più intima restituendo – come lui stesso racconta – «il realismo dell’istante, arcaico, statico perlopiù, ma comunque percorso da un fremito». E il fremito, per come lo si coglie lungo questo poderoso percorso narrativo, abbraccia l’intera carriera di arte visiva di Bob Dylan, che evidentemente corre parallela alla sua carriera artistica.
Proprio la sua, costellata di successi e riconoscimenti, gli stessi che gli vengono tributati per aver venduto oltre 125 milioni di dischi e aver dato alle stampe otto libri di disegni e dipinti. Ma non è tutto, perché Dylan, il cantore della protesta che incantò il mondo, è anche stato colui che ha vinto Grammy, Golden Globe e Oscar, col suo nome finito nella Rock and Roll Hall of Fame. Come se non bastasse, negli anni, sono arrivati per lui – nel 2008 – anche un Pulitzer “per il suo profondo impatto sulla musica popolare e sulla cultura americana, segnato da composizioni liriche di straordinaria potenza poetica”. Ma sarà nel 2012 che riceverà dalle mani del presidente Obama la Presidential Medal of Freedom, un riconoscimento, questo, alla libertà, la cui radice – la libertà, appunto – riecheggia in ogni singola opera prodotta e oggi in visione al pubblico italiano. Ma Dylan è anche colui che, nel 2016, ha vinto il Nobel per la Letteratura “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”.
Poesia – dicevamo – e libertà che ritornano intatte anche nella sua produzione di artista visivo, che spazia dai disegni ai paesaggi passando per la rivisitazione grafica di note copertine di giornali fino ai diari illustrati, ritratti e sculture anche di grosse dimensioni. Davanti alle sue opere si può tutto tranne che rimanere indifferenti: scelgono di raccontare la condizione umana esplorando quei misteri della vita che continuano a lasciarci perplessi. Nelle sue opere, appartenenti a stili ed epoche differenti, c’è il mondo per come appare. «Il mondo che vedo – dice – o che scelgo di vedere, di cui faccio parte o in cui entro». E non è un caso che nel suo lungo lavoro non ci siano esattamente i simboli più iconici dell’America, quanto le immagini più intime, ma collaterali, di un popolo che sembra quasi di toccare attraverso il suo racconto visivo.
È lui stesso a scrivere: «La mia idea era di fare cose semplici, occuparmi solo di ciò che è visibile all’esterno». Ecco perciò che sceglie di raccontare l’America che meno ti aspetti, quella che solo chi la vive ed è in grado di osservarla nel profondo sa descrivere: «Scelgo le immagini per ciò che significano per me, moli, paludi, fermate di camion, linee elettriche, segnali. Direi che il fine è semplice, non sperimentale né esplorativo».
Un’arte, dunque, intima, profonda e con un intento dichiarato che non si presta ad alcuna forma di snobismo elitario. In tale filone, colpisce – anche a livello materico – tutta l’ampia produzione legata alla sua terra d’origine: il Minnesota, terra di minatori. È da quella regione degli Usa che Dylan trae ispirazione per un viaggio attraverso il fuoco e il ferro, materiali, appunto, lavorati in maniera molto diffusa in quello Stato. Così nasce “Ironworks” – la sua vasta produzione di sculture in ferro – sorprendenti anche quelle di grandi dimensioni -, strutture funzionali composte da oggetti e attrezzi convertiti a nuovo uso che oltre ad affondare nel ricordo dell’infanzia – quella di Dylan – nella zona mineraria del Nord Minnesota, rievocano anche il passato industriale degli Stati Uniti d’America. Lo stesso passato che sembra riaffiorare in un presente che appare quasi statico, immutato, fotografico come nella raccolta The Drawn Blank, che si concretizza in una sorta di diario illustrato con istantanee di strada tra ritratti accorati e angoli nascosti. Ma l’umanità – quella di cui riesci a cogliere lo spirito, i pensieri più profondi – appare chiara nel suo lungo viaggio attraverso New Orleans, la serie calata nella città natale del jazz e della quale Dylan dimostra di conoscere ogni angolo, anche il meno visibile. Situata all’estremità sud della Route 61 – una delle arterie più celebri d’America -, è anche conosciuta ai più come la “Strada del Blues”. È qui che Dylan cattura i volti dei suoi abitanti, le abitudini, i cori, le cerimonie religiose con uno sguardo ravvicinato che sa abbracciare squarci di vita quotidiana restituendo tutta l’energia allo spettatore che osserva.
Cantante, dunque, come è noto ma anche – appunto – pittore, scultore, performer in grado di parlare pure alle generazioni più giovani. Ed è un tratto non da poco della sua scelta artistica considerando che la sua musica e la sua arte sono in grado di dialogare con un pubblico che per scelta, appunto, non conosce frontiere. Stando al curatore della retrospettiva oggi a Roma, Shai Baitel, la cosiddetta Silent Generation – quella che si sarebbe accontentata per troppo tempo di agire all’interno del sistema per poi solo dopo farsi massa critica – ha molto da dire anche alla Generazione Z. Se la Silent Generation non aveva, infatti, «mezzi e infrastrutture per modificare lo status quo – dice Baitel -, la Generazione Z ha la possibilità di scegliere e di sfruttare il suo potere collettivo». Oggi, dice ancora il curatore della mostra: «le masse armate di smartphone possono essere altrettanto potenti nei confronti delle autorità quanto lo sono state le generazioni precedenti con le loro armi e tattiche di guerriglia».
Osservando perciò Dylan lungo tutta la sua produzione artistica si ha la sensazione di essere di fronte a una figura difficilmente imbrigliabile nelle semplificazioni e nello stereotipo del mito in musica; piuttosto un artista in grado di tenere assieme il passato e il presente, con un sottofondo costante di profonda speranza nel futuro.
«Tutto quello che posso fare è essere me stesso, chiunque io sia», dice di sé Bob Dylan e sembra riuscirci nell’istante stesso in cui non mette filtri tra il proprio punto di osservazione, il luogo o la scena narrata e l’osservatore. «Davanti a queste composizioni – scrive ancora Dylan – l’osservatore non ha bisogno di chiedersi se si tratti di un oggetto reale o se è frutto di un’allucinazione: se visitasse il luogo in cui quell’immagine è realmente esistita, vedrebbe la stessa cosa. È questo che ci unisce tutti».
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