Scrittore in versi, narratore di storie o romanziere… professa l’universalità del poema, della sua bellezza che non conosce confini geografici. Ed è sicuro: «Sarà la poesia a salvarci»
“Scrittore marocchino di lingua francese”. Questa definizione di Tahar Ben Jelloun sintetizza il percorso di un uomo che, a soli 5 anni, è entrato nella scuola coranica di Fez in Marocco e, a 45, ha vinto il Goncourt, il più importante riconoscimento letterario in Francia. Tra i due eventi c’è stato il liceo francese di Tangeri, un campo di disciplina, quindi l’esilio scelto quando nel 1967, in Marocco, fu presa la decisione di far studiare in arabo la filosofia, materia che lui insegnava. Con le stimmate letterarie dello scrittore arabo, o del romanziere francofono, Ben Jelloun è così diventato nel corso degli anni, degli incontri e dei libri il narratore instancabile delle miserie e delle grandezze del piccolo popolo del Maghreb, con libri diventati classici contemporanei, come Il razzismo spiegato a mia figlia, quest’anno approdato perfino al Festival di Sanremo, grazie alla lettura di un suo brano fatta dalla giovane attrice italiana, con madre senegalese, Lorena Cesarini. Ed è stato felicemente in bilico tra le due matrici culturali il poeta Ben Jelloun, che ha appena ricevuto il premio Camaiore Internazionale per il suo ultimo libro in versi, Dolore e luce del mondo, pubblicato da La Nave di Teseo. Nelle notti d’esilio dal Paese amato soffia un vento così forte da far crollare gli alberi della nostalgia, e nelle notti d’esilio nel Paese prescelto il vento che si leva è quello dell’inquietudine. La poesia sembra avere un posto segreto e in qualche modo privilegiato nella sua tastiera espressiva, “per far cessare la confusione che illusione e disincanto producono, per trovare l’essenziale senza frastuono, per rimanere vicino all’infanzia”. I versi in cui dà voce e memoria alla sua gente, ne esprime sofferenze e recriminazioni, sono il nucleo dell’infaticabile romanziere che racconta il suo mondo, misterioso e oscuro, con occhi straniti e persi. Il poeta trova una corda più intima, un rapporto con la lingua più diretto, elementare, per giungere a quel fondo incandescente, la vera voce dell’anima. Dice Ben Jelloun che non si diventa poeta per volontà della Musa, ma per la durezza della vita e delle sue prove. E aggiunge: «Scrivo romanzi, libri pedagogici per l’infanzia, saggi, fiabe ma ciò che preferisco è sempre la poesia: non si tratta di versi ma di un’attitudine. E continuo a pensare che sarà la poesia a salvarci».
Tahar, un poeta può diventare un buon narratore? Lei è poeta prima di essere scrittore, ma come scrittore s’è guadagnato di più la sua gloria…
Né i santi né i poeti si dicono “santi” e “poeti”. Non mi definirei poeta, ma l’accetto perché lei così mi chiama. È difficile passare dalla poesia che esprime la sostanza delle cose alla narrazione di storie. Ho cercato di introdurre la poesia nel mio stile narrativo, come certi scrittori arabi.
La sua poesia quanto deve alla luce, ai luoghi dove è nata?
I luoghi sono importanti, come la luce per i pittori. Il Marocco, la sua luce, il suo spazio, i problemi, le difficoltà mi hanno spinto alla poesia. Ma la poesia non è mai locale, anche se parla dei luoghi più vicini al poeta.
Lei sostiene che i confini nazionali non possono separare l’eredità e l’identità. La poesia è contro l’identità stretta di appartenenza?
La poesia nasce al di là delle frontiere, rifiuta le frontiere geografiche, umane, psicologiche. Altrimenti è ideologia, la sua negazione. Di qui la sua universalità: per arrivarci, la sincerità e l’immaginazione debbono essere al massimo. La poesia non accetta la facilità, la debolezza, la mediocrità.
I suoi versi esprimono la condizione del “doppio esilio”. In cosa consiste?
La mia poesia non si considera esiliata. Il fatto che scrivo in francese, che non è la lingua del mio popolo, può essere considerato un esilio non drammatico. L’altro esilio geografico non esiste.
Cosa ha portato con sé andando a vivere in Francia?
Ho portato con me e in me molta passione per la lettura, la curiosità, il desiderio di scrivere ed essere pubblicato. Ho anche portato le emozioni, i valori della mia società, il senso di solidarietà, di ospitalità, del dono. Nessuno “choc” tra le due culture: ho cercato il matrimonio, la mescolanza, l’intreccio. La Francia mi ha dato molto, una Francia più generosa dell’attuale. Accoglieva bene, non aveva paura né di stranieri né dell’Islam, anche se c’era il razzismo. Quella cultura fu per me uno straordinario regalo.
Qual è il legame inscindibile tra poesia e bellezza?
La bellezza non è per forza il Bene, è anche il sentimento della tristezza, della desolazione. La bellezza è anche enigma, mistero. Colpisce l’anima e la colma di inquietudini.
L’imperativo categorico è per lei “la poesia deve continuare”. In che modo?
La poesia deve essere. Non può essere guidata, ma deve avere lo spazio che merita. Oggi questo spazio si va riducendo, ma la gente ha bisogno di poesia come il pane.
Scrivere può cambiare le cose, nell’epoca dell’informazione? La letteratura ci porta ancora notizie, ci “cambia”? C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi, sempre più lontano dall’“ascolto” della poesia?
È difficile cambiare qualche cosa, la letteratura ha un potere limitato. Ma ogni società ha bisogno di letteratura. Non confondiamo la tecnica con la morale. Siamo maggiormente informati, ma non per questo siamo “moralmente” migliori. La tecnica non fa scomparire il Male, l’orrore delle guerre, della terribile guerra in corso.
È possibile una poesia senza dolore?
Direi una poesia senza dramma. Dietro ogni grande opera – diceva Genet – si nasconde un dramma. È il dramma a favorire la scrittura, non la felicità.
In che rapporto è la solitudine con la poesia? È una condizione per scrivere…
È essenziale. Non penso di poter scrivere per molti. Ma non può essere isolamento, esclusione. Siamo tutti soli con brevi intervalli in questa solitudine. Questa si chiama vita.
Quanto la paura ha inciso sulla sua scrittura e quanto la speranza?
La paura, la speranza? Un uomo senza paura è pericoloso; la paura esprime la nostra umanità. Chi non ha mai paura di nulla, è capace di tutto, del peggio e del meglio, spesso è il peggio a trionfare. La speranza è il nostro caffè quotidiano. È necessaria per tenere sveglio il nostro spirito, senza rinunziare ai valori umanitari alla base della civiltà e del “vivere insieme”.
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