Oggi non si usa più, ma molti ricordano che, fino a pochi anni fa, si usava dire «ehi, hai fatto un ben-hur» per indicare a qualcuno che aveva compiuto un’enormità, un’azione esagerata, un progetto dalle proporzioni gigantesche.
Il ben-hur della frase era un neologismo nato negli anni 60 – e a poco a poco dimenticato, come succede a tutte le parole inventate sull’onda di un evento popolare che non si ripete nel tempo – legato a uno dei film più magniloquenti di sempre. Il Ben-Hur del regista William Wyler, terza versione cinematografica datata 1959 (ne seguirà una quarta nel 2016) del romanzo del generale Lee Wallace, definì il kolossal epicobiblico, in cui spicca tuttora la magnifica corsa delle quadrighe, girata dalla seconda troupe, con la regia di Andrew Marton e la guida del leggendario stuntman Yakima Canutt. La vicenda dello schiavo liberato, formidabile driver come si direbbe oggi, e della sua ricerca di madre e sorella imprigionate ottenne 11 Oscar e un esito superlativo al botteghino.
Ben-Hur e le centinaia di professionisti che ci lavorarono
Però dietro alla sua faraonica lavorazione, avvenuta per la gran parte in Italia, si nascondono centinaia di professionisti che non sono mai stati accreditati, ma che hanno segnato con la loro abilità questa tappa della storia del cinema. A cominciare da nomi importanti come gli scrittori Christopher Fry e Gore Vidal (che avrebbe voluto trasformare l’amicizia tra il protagonista e il tribuno Messala in amore omosessuale) non citati per la partecipazione alla sceneggiatura. Fatto che probabilmente fece perdere al film il dodicesimo Oscar. E continuare con il soldato romano Giuliano Gemma, lo schiavo ebreo Lando Buzzanca, Mario Soldati, Audrey Hepburn, Sergio Leone e attori, comparse, sarte, macchinisti, elettricisti, controfigure, assistenti alla regia, aiuto scenografi, costruttori, orchestrali, fattorini, addestratori e addetti ai cavalli, armieri e mille altri.
Ben-Hur, il podcast a puntate
A questa lacuna, peraltro abituale all’epoca, si è impegnato a porre spettacolare rimedio il giornalista, saggista e autore televisivo Michele Bovi, che ha realizzato il podcast in 20 puntate di 15/20 minuti l’una intitolato Ben-Hur, un altro film. Fondamentale il supporto di Pasquale Panella (paroliere per Battisti e per Notre Dame de Paris, romanziere e poeta), che scrive le musiche e interpreta in ciascuna puntata un personaggio legato alla pellicola, elaborandone la “testimonianza” da grande attore e autore di teatro qual è. Ne è uscito un documento unico e affascinante, che ci immerge nel periodo in cui Roma era la andreottiana “Hollywood sul Tevere” e vi venivano girati film a grande budget, raccontandoci i dietro le quinte più veri, anedottici e anche inquietanti di quel mondo. Le parole di Bovi, Panella, degli importanti ospiti e dei testimoni ancora in vita scorrono veloci, ci tengono incollati e ci fanno immaginare con la mente quel clima, fino all’ultimo podcast, che è un vero e proprio documentario filmato. Il progetto grafico realizzato da Ines Paolucci consente di scorrere tra documentazioni fotografiche esclusive. Lasciamo adesso la parola a Michele Bovi che ci illustra questo prezioso progetto (reperibile cliccando qui), completamente gratuito.
Come è nata la vostra passione per un film ormai dimenticato come Ben-Hur?
«È una passione cresciuta con noi, non tanto per il Ben-Hur visto sul grande schermo quanto invece per le fasi di esecuzione del film. Panella e io siamo coetanei. Lui abitava vicino a Cinecittà e il gigantesco dipinto eretto sulla piscina degli stabilimenti per ricreare il cielo della battaglia navale del film era ben visibile a distanza. Nell’opera che abbiamo confezionato assieme, Panella parte proprio da quelle suggestioni di bambino, affascinato dalle costruzioni, dalla cartapesta e dai cascatori, i generici, le comparse che si riunivano nel bar a pochi passi dalla sua abitazione. Così pure nella mia infanzia l’immagine di Ben-Hur è stata incisivamente presente: tre miei familiari lavorarono per il film, per due anni in casa non si parlò d’altro, tra risme di fogli di carta intestata con la filigrana della quadriga, parrucche e spade di legno argentate con cui giocavo coi miei amici. Personalità e addetti ai lavori legati al film che non conobbi all’epoca li ho incontrati successivamente. Come padre Félix Morlion, il domenicano collaboratore di Giulio Andreotti che fu straordinaria eminenza grigia del circo di Cinecittà, o come lo scenografo Vittorio Valentini, che dopo una lunga navigazione cinematografica era tornato alle rive della nativa Repubblica di San Marino. Andavamo a cena a Rimini ogni settimana e di che cosa potevamo parlare? Di Ben-Hur, delle concause dell’infarto che aveva ucciso il produttore Sam Zimbalist, delle storie d’amore nate nei pressi del set, della straordinaria puntualità nei pagamenti della produzione americana in un ambiente altrimenti fondato su cambiali, assegni postdatati e promesse inevase.»
Perché vi siete impegnati in questa ricostruzione, quasi una tesi di certosino approfondimento da 110 e lode in storia del cinema?
«Panella è appassionato ed esperto di cinema. In ogni capitolo racconta Ben-Hur da un diverso punto di vista: fa parlare i cineasti che hanno ricoperto ruoli nella pellicola seppure non accreditati nei titoli, dà voce al mitico regista Carmine Gallone, allo sceneggiatore Gore Vidal, alle comparse, persino a Morello, il più vivace dei cavalli di Messala. E anche a Giulio Andreotti, il principale sponsor politico della Hollywood sul Tevere. Io, che non sono un esperto e neanche un appassionato di cinema, ho fatto il mio mestiere di cronista: ho rintracciato e studiato i documenti della produzione, ascoltato i testimoni, intervistato i figli di quelli che ci hanno lasciato. Il nostro Ben-Hur, un altro film in realtà non è la storia del film Ben-Hur ma della realizzazione in Italia dei kolossal dell’epoca, come Quo Vadis o Elena di Troia. Storie di organizzazione produttiva. E ci siamo divertiti molto, coinvolgendo tanti amici che hanno dato il loro contributo in voce al podcast: Maria Concetta Mattei, Carlo Conti, Maurizio Costanzo, Enzo Decaro, Remo Girone, Gene Gnocchi, Linus, Massimiliano Pani e tre voci dal genuino accento anglosassone, quella di Kathleen Rose Amos, quella del cantante Mal, quella dell’ex chitarrista dei mitici The Rokes, Johnny Charlton.»
Come nacque, cosa la sostenne e perché finì l’era della Hollywood sul Tevere?
«Su genesi ed epilogo della Hollywood sul Tevere sono stati pubblicati libri come quello di Steve Della Casa e Davide Viganò o realizzati documentari come quello di Marco Spagnoli, che contengono analisi precisamente esaustive del fenomeno. Noi riveliamo i nomi dei valorosi comprimari sconosciuti di quegli eventi di celluloide. Attori, organizzatori, supervisori, truccatori, parrucchieri, attrezzisti, artigiani di ogni genere, famiglie di specialisti che hanno reso Cinecittà la location più appetibile per le grandi produzioni americane, oltre a un costo del lavoro col risparmio del 30 per cento rispetto a Hollywood e a leggi che, dietro a un formale obbligo di congelare nelle banche italiane gli incassi, consentivano un riparo dalle idrovore del fisco statunitense. Esiste un solo testo che cita dettagliatamente opere enomi delle famiglie di artigiani e di stuntman che hanno fatto grande Cinecittà: è Giganti buoni. Da Ercole a Piedone (e oltre) il mito dell’uomo forte nel cinema italiano, una splendida ricerca di Michele Giordano, lì ci sono tutti, padri e figli e fratelli, vere dinastie, ad esempio controfigure di rara bravura come Neno, Rinaldo e Annamaria Zamperla; Otello, Pietro e Omero Capanna; Franco, Bruno, Sergio, Giancarlo, Giovanni e Clemente Ukmar; Alberto, Aldo, Ottaviano e Roberto Dell’Acqua; Renzo e Osiride Pevarello. Quei nomi li abbiamo ritrovati nei documenti originali della Metro-Goldwyn-Mayer: tutti gli italiani contrattualizzati per Ben-Hur e non citati nei titoli. Il ventesimo capitolo del nostro Ben-Hur, un altro film è proprio un video con i titoli di coda in cui scorrono i nomi di tutti coloro furono impegnati per quella produzione, persino i medici, i veterinari, le dattilografe, gli autisti, gli uscieri.
Era una prassi statunitense: ti pago di più, ma non ti cito nei titoli. E agli italiani stava bene: quelle produzioni significavano compensi lauti e garantiti. Una consuetudine arrivata ai giorni nostri. Il maestro d’armi di Ben-Hur era Enzo Musumeci Greco: fu un impegno enorme, senza citazione nei titoli. Suo figlio Renzo, che ha ereditato abilità e attività di famiglia, è stato il maestro d’armi di House of Gucci, il film del 2021 diretto da Ridley Scott. La produzione americana gli ha fatto firmare una liberatoria che autorizzava anche l’eventuale mancata citazione nei titoli. Poi il suo nome è comparso, un regalo quasi inaspettato.
In Ben-Hur, un altro film c’è anche un bagaglio di immagini con contratti, lettere e fotografie con dediche a documentare i rapporti. Le foto del mitico addestratore Pietro Marra che ideò le soluzioni per tenere in riga i cavalli nella corsa delle quadrighe, quelle dello scenografo Vittorio Valentini con il produttore Sam Zimbalist, quella della controfigura di Charlton Heston: l’attore romano Alessandro Zippel.»
Nel vostro lavoro ci sono anche molti riferimenti allo spionaggio. Chi spiava e che cosa c’era da spiare in Ben-Hur?
«Nel suo libro di memorie La mia vita nella CIA, l’ex direttore dell’agenzia William Colby, che fece l’agente segreto a Roma per tutti gli anni Cinquanta, racconta di come fosse facile nel periodo della Dolce vita infiltrare agenti con la copertura di aspiranti attori del cinema. Quelle produzioni portarono una moltitudine di stranieri a Roma, materializzarono appunto il fenomeno della Dolce vita che coinvolgeva non solo cineasti, ma anche politici, industriali, aristocratici. Gli apparati di informazione e sicurezza erano chiamati a monitorare quelle situazioni. Il capitolo 16 di Ben-Hur, un altro film è intitolato 007 ai tempi delle bighe. Consiglio ai nostri apparati, che tra l’altro danno prova di sensibilità ed eccellente cultura nei confronti del cinema attraverso pubblicazioni come Gnosis, di ascoltare l’intervento di Pasquale Panella: ritengo sia uno dei testi più fascinosi scritti per descrivere l’essenza dell’agente segreto in certe circostanze.»
L’avvento dei computer ha totalmente cambiato la realizzazione dei film: oggi sarebbe molto più semplice fare un’opera come Ben-Hur?
«Ben-Hur di William Wyler viene riproposto almeno una volta l’anno sui teleschermi di Rai e Mediaset. Ancora oggi il suo richiamo è formidabile. Sette anni fa c’è stato un remake, benfatto, che però non ha lasciato tracce importanti. Il computer non è riuscito a riprodurne la magia.»
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