Francesca Balasso. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2019 e 2022 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Fossalta di Portogruaro (Ve).
In preda all’ira Beppe salì le scale che portavano al piano superiore del municipio. Incurante dell’età affrontava i gradini a due a due, gli scarponi infangati, gli stinchi secchi scoperti dal movimento che accorciava i pantaloni lisi e troppo larghi. La mano destra nervosa come un artiglio afferrava la ringhiera. L’altra stringeva un foglio e seguiva il movimento del braccio simile alla pala di un mulino a vento. Il volto rugoso solitamente pallido era paonazzo, gli occhi sbarrati parevano non vedere, imprecava e borbottava. Era sul punto di scoppiare.
Avanzò dritto lungo il corridoio insensibile alla bella luce pomeridiana che filtrava dalle grandi finestre. Senza fermarsi spalancò con forza l’uscio dell’ufficio tecnico. Si bloccò davanti alla scrivania e vi sbatté sopra il foglio facendo cadere la targhetta “geom. Sergio Contesi”. Questi, un uomo robusto sulla quarantina invidiato per il buon carattere, non fece una piega, lo guardò da sotto in su ed attese.
“Si può sapere che vi è preso a voi del comune? Cosa significa questo foglio?”, urlò Beppe e continuò sempre più adirato, “E’ uno sfratto, me ne devo andare da casa mia!”, e giù epiteti ed imprecazioni.
“Dovrei andarmene per far posto ad una cooperativa, ad un gruppo di stupidi incompetenti che non distinguono un piccone da una pala? Eh no, è casa mia!”.
Tacque, pareva aver esaurito la bile e Sergio ne approfittò per accompagnarlo e farlo sedere in corridoio. Lì non c’era altro che la panchina. Gli parlò gentile.
“Non è casa tua, è il cimitero comunale dove tu sei custode”. Provò pena per il vecchio ora piegato in avanti, lo sguardo perso nel vuoto.
Beppe si occupava di quel luogo da quasi cinquant’anni. Non solo, ci abitava. Aveva adattato due stanze adibite a magazzino e ne aveva fatto un rifugio, il posto più bello del mondo a suo dire. Ed ora doveva andarsene. Degli estranei si sarebbero occupati di quelle povere anime, che ne sapevano delle loro vite passate! Lui Beppe le conosceva tutte, ci parlava come a dei vecchi amici.
“Geometra hai ragione ma il mio mondo è là. Te la ricordi la vecchia Tullia, veniva ogni giorno a trovare il suo Nando. In vita se l’erano date spesso di santa ragione, quando tornava ubriaco lui la picchiava lei lo inseguiva con un bastone e restituiva con l’interesse. Quanti sacrifici, i soldi della Svizzera per quella tomba di granito rosa. Sai bisogna pulirla con cura, quegli zotici sarebbero capaci di usare l’idro-pulitrice!”.
Sergio lo assicurò che aveva controllato le referenze personalmente, ma Beppe non ascoltava.
“E l’Adalgisa, povera ragazza l’hai conosciuta? Ma no, morì di crepacuore prima che tu nascessi a ventitré anni. Quel porco del suo fidanzato la lasciò per sposare la ragazza che aveva messo incinta, bastardo! Ogni giorno ascolto i singhiozzi e la consolo. Tu pensi che sapranno coltivare la pianta di rose bianche che cresce sulla tomba? Macché, la inonderanno con un secchio di diserbante, buoni a nulla!”.
“Hanno il diploma di giardinieri” si inventò Sergio sperando di far breccia nei pensieri del vecchio. Inutile.
“Hai presente quei piccoli tumuli senza nome nella parte vecchia? Trenta sono, dal numero centoventuno al cento cinquantuno. Sono i bambini morti di freddo nel gelido inverno del ventotto. Invece di estirpare a mano le erbacce, gli stupidi useranno il decespugliatore. Il rumore infernale spegnerà le risa di quegli angioletti. Ti rendi cono, eh! Come posso andare via. E poi dove? Sono solo.”. La voce gli si ruppe in gola e tacque.
Sergio parlò calmo. “Non sei solo Beppe. Hai lavorato tanto, ci penserà il comune a pagare la casa di riposo.”
Beppe sentì l’ira montare simile alla lava nel camino del vulcano, balzò su come si fosse seduto sul nido di vespe e coprì di insulti il poveraccio. Volevano mandarlo in mezzo ai vecchi ad attendere la morte, no e poi no. Avvicinò il volto a quello del geometra e a denti stretti sibilò “Ricordati, io in casa di riposo mai!”.
Se ne andò come era arrivato, un diavolo per capello, sbuffando ed imprecando.
Sergio sinceramente preoccupato si rivolse al vigile che udito il vociare era salito. Gli chiese di tenere d’occhio il vecchio, che non facesse qualche sciocchezza.
“Stai tranquillo” gli rispose “lo conosco bene. Domattina sbollita la rabbia ed i bicchieri in più, sarà un agnello.”
“Speriamo” sospirò l’altro grattandosi il lucido cranio. Seguì con lo sguardo Beppe mentre si allontanava. Notò che aveva rallentato il passo e calato le braccia lungo i fianchi in un gesto di rassegnazione e tornò alla scrivania sollevato.
La mattina dopo geometra, vigile e due operai della cooperativa si trovarono davanti al cancello del cimitero. Oltre l’inferriata videro una buca scavata di traverso, perfettamente rettangolare, le pareti lisce e profonde. Un paletto piantato a metà del lato lungo portava un cartello “NON ME NE VADO. DOVRETE PASSARE SUL MIO CADAVERE”.
Sergio aprì con la sua chiave. Si avvicinarono. Sul fondo Beppe era steso vestito di tutto punto, le mani incrociate stringevano una rosa bianca. Sul volto cereo colpiva la bocca piegata in un ghigno. Nella mente di Sergio echeggiò la voce irosa del vecchio “Io, in casa di riposo, mai!”.