L’assistenza religiosa può aiutare i detenuti a connettersi con i propri bisogni spirituali e ad affrontare con consapevolezza e speranza il percorso carcerario. A raccontarlo è padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli dal 1978
Dal 1975 la legge italiana riconosce alle persone detenute la libertà di praticare la propria fede in carcere. Qui i ministri di culto possono entrare grazie ad intese tra lo Stato e la confessione di appartenenza o, in assenza, con un nulla osta ad personam dell’ufficio Culti del Ministero dell’Interno. Per i cristiani c’è un cappellano in ogni istituto. Abbiamo incontrato quello di Regina Coeli, padre Vittorio Trani, che lavora lì dal 1978, anno in cui ha fondato anche il centro VO.RE.CO. – Volontari Regina Coeli – con cui offre sostegno materiale e spirituale ai detenuti e alle loro famiglie.
Chi sono le persone detenute a Regina Coeli?
Molti sono immigrati, alcuni vengono dalle periferie, altri sono tossicodipendenti. Ci sono recidivi o persone che non hanno famiglia e delinquono. La maggior parte ha tra i 18 e i 45 anni.
Sono religiose?
Alcune no; altre hanno una fede sopita che si riaccende in carcere, quando restano sole con se stesse dopo aver perso tutti i punti di riferimento. Ci sono cristiani, musulmani, indù, buddisti, testimoni di Geova, protestanti. Ognuno ha un rappresentante; c’è attenzione e rispetto per ogni espressione di culto.
Di cosa hanno bisogno i detenuti?
Molti sono poveri e tramite il centro VO.RE.CO. diamo loro vestiti e prodotti igienici per il quotidiano. A chi non è italiano garantiamo una chiamata al mese a casa. Poi ci sono i bisogni spirituali: i ragazzi sono assetati di amore e di attenzione. Sin da quando arrivano hanno bisogno di parlare. Mi raccontano ogni giorno timori e speranze. Prima si sfogano, poi inizia il dialogo vero in cui si parla di responsabilità. Infine, può arrivare la conversione, ossia il recupero dei valori, tra cui la fede. Dopo aver perso tutto, i ragazzi riscoprono l’amore e imparano il perdono.
Come si rivolge ai detenuti?
Con rispetto e con il sorriso. Sono innanzitutto persone che hanno vissuto un evento segnante. Bisogna liberare la mente dall’idea che sono in carcere, altrimenti il rapporto è condizionato dai pregiudizi. E poi, che siano cristiani o meno, mi impegno ad essere vicino a tutti materialmente o, se lo richiedono, anche con l’ascolto e i consigli.
La fede può trasformare l’esperienza del carcere?
È “la” risorsa in più. I ragazzi sono soli, arrivano da contesti in cui non hanno ricevuto amore. Con la fede colmano il vuoto e la sfiducia perché scoprono di essere importanti e unici.
Come comunica con gli stranieri?
Lavoro con persone che sanno l’inglese, il francese, il portoghese, lo spagnolo. Può capitare che arrivi qualcuno originario del Kurdistan o della Cina e che parli solo il dialetto locale, ma anche in questi casi riusciamo a trovare un interprete.
Fuori dal carcere, le persone restano in contatto con lei?
Sì, spesso mi mandano lettere. Molti, però, una volta fuori, vivono una forma di rifiuto verso il carcere e tutto ciò che ha a che fare con questo mondo.
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