Tendiamo sempre più spesso ad essere medici di noi stessi. Prescrivendoci da soli le terapie e decidendo in autonomia i tempi di somministrazione, non solo ne alteriamo i benefici, ma rischiamo serie conseguenze
La storia dei farmaci corre parallela alla storia dell’umanità. I successi della farmacologia e della farmacoterapia, registrati soprattutto nel secolo scorso, sono stati determinanti per la conquista della longevità e della qualità della vita.
Grazie ai farmaci possiamo diagnosticare, curare (o prevenire) molte malattie, dalle più gravi alle più lievi. Sebbene siano indispensabili alla custodia della nostra salute, oltre a benefici effetti terapeutici i farmaci possono provocare anche danni: i cosiddetti “effetti collaterali” o “indesiderati” (elencati puntualmente nel foglietto illustrativo che accompagna ogni confezione, ma che non sempre leggiamo). Per tale motivo l’autoprescrizione, senza controllo medico, può essere pericolosa.
Anche medicinali che, erroneamente, consideriamo del tutto innocui andrebbero usati con prudenza. Ci riferiamo ai farmaci cosiddetti “da automedicazione” o “da banco”, che possiamo acquistare liberamente senza obbligo di ricetta, per curare in autonomia (ipotetici) disturbi lievi e passeggeri.
Ma spesso, anche quando stiamo bene, corriamo in farmacia a cercare la pillola per “stare meglio”. Una vera e propria “farmacomania”.
Secondo l’ultimo rapporto realizzato dall’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed) dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco), l’anno scorso abbiamo speso 2,4 miliardi di euro per l’acquisto di farmaci da automedicazione. Tra antidolorifici, antinfiammatori, vitamine, fitofarmaci e integratori alimentari.
«L’autoprescrizione e/o l’assunzione in maniera impropria di farmaci non sempre necessari sono comportamenti rischiosi per la nostra salute», ci spiega Silvio Garattini, fondatore nel 1963 dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, noto nelle comunità scientifiche di tutto il mondo.
«Spesso per un malessere anche molto leggero, che passerebbe da solo – ci dice il farmacologo, – si ricorre all’autoprescrizione, senza tener conto che tutti i farmaci possono dare delle forme di tossicità. Bisognerebbe essere più cauti e non prendere iniziative senza consultare il medico. Se, ad esempio, si assumono già altri farmaci, si possono verificare pericolose interazioni tra sostanze differenti. Il farmaco auto-prescritto, interagendo con il farmaco importante assunto su prescrizione del medico, può modificarne l’efficacia, diminuendola o azzerandola, oppure può rafforzarne l’azione determinando una maggiore tossicità. Ad esempio, gli antinfiammatori non steroidei – che rappresentano la classe di farmaci più comunemente auto-prescritti, utilizzati prevalentemente per alleviare dolori ossei, articolari e muscolari – possono bloccare gli effetti dei farmaci antipertensivi. È molto importante annotare sempre meticolosamente tutti i farmaci – compresi i prodotti da banco, integratori e i fitoterapici – di cui facciamo uso per riferirli al medico curante, che potrà così valutare la loro compatibilità con il trattamento che intende prescrivere».
Non solo ci prescriviamo i farmaci, ma ci sentiamo autorizzati a modificare o interrompere la terapia prescritta dallo specialista. Con quali conseguenze?
Di un sottodosaggio, terapeuticamente inefficace, se diminuiamo la dose. Due compresse o una invece delle tre raccomandate dal medico, ad esempio. O, al contrario, di un pericoloso sovradosaggio. La scarsa aderenza alla terapia rappresenta una forma di auto-prescrizione indiretta.
Se ad ogni episodio influenzale tiriamo fuori gli antibiotici avanzati da una precedente prescrizione, che male facciamo?
Gli antibiotici hanno ridotto il numero delle morti causate dalle malattie infettive e migliorato lo stato di salute dei cittadini. Parallelamente allo sviluppo degli antibiotici si è, però, verificata la resistenza batterica, che oggi è un problema a livello mondiale. L’eccessivo e inappropriato utilizzo degli antibiotici negli uomini e negli animali e le scarse pratiche di controllo delle infezioni hanno trasformato l’antibiotico-resistenza in una seria minaccia alla salute pubblica globale. Questo comporta un prolungamento della degenza ospedaliera, il fallimento terapeutico e un significativo numero di morti, con conseguente incremento dei costi sanitari.
Ci sono integratori per tutto, per migliorare le prestazioni sportive, per favorire un’attiva vita sessuale, per cancellare la stanchezza fisica e mentale, per potenziare le difese immunitarie… Non possiamo farne a meno. Ma sono davvero utili?
Gli integratori alimentari (detti anche complementi alimentari o supplementi alimentari) sono inutili se si segue una dieta varia e bilanciata. Il loro utilizzo dovrebbe essere limitato all’integrazione di una dieta carente di uno o più nutrienti a causa di un’assunzione inferiore alle quantità raccomandate o in condizioni di aumentato fabbisogno. È necessario sottolineare che gli integratori sono prodotti alimentari, non sono farmaci. Tuttavia molte sostanze, per lo più di origine vegetale, sono utilizzate di frequente sia come ingredienti degli integratori, sia come principi attivi di farmaci. Un criterio usato per distinguere l’uso di un determinato principio attivo come “integratore” o come “farmaco” è la dose.
Un esempio?
La vitamina B12. La cobalamina – questo il nome chimico della sostanza – è prescritta in qualità di “farmaco” per la cura dell’anemia megaloblastica nelle preparazioni che superano la dose minima di apporto giornaliero, pari a 1.000 mg. Altrimenti è considerata un integratore alimentare. Se una persona non è anemica e assume la vitamina, non sta compiendo un’azione farmacologica ma sta prendendo una sostanza a caso. La pubblicità martellante che si fa degli integratori alimentari – va detto – contribuisce ad alimentare un consumismo dissennato che non giova a migliorare il nostro stato di salute.
Una maggiore educazione sanitaria sarebbe auspicabile…
Certo, ma sarà difficile ottenere risultati significativi senza una grande rivoluzione culturale. Bisognerebbe ribaltare l’attuale concezione della medicina polarizzata sulla cura delle malattie, ma curare solo quando non è possibile prevenire. Occorrerebbe considerare la prevenzione come l’assoluta priorità del Servizio Sanitario Nazionale. La maggioranza delle malattie, soprattutto quelle croniche, è evitabile. Tutte si potrebbero prevenire efficacemente attraverso l’adozione dei cosiddetti “buoni stili di vita”. Tutti abbiamo un’idea di che cosa siano ma poi, nei fatti, li trascuriamo.
Ricordiamoli.
L’alimentazione varia e moderata per evitare sovrappeso e obesità è fondamentale, se vogliamo evitare malattie croniche quali diabete, insufficienza cardiaca, respiratoria e renale. L’esercizio fisico induce una maggiore stabilità motoria, prevenendo cadute ed eventuali fratture. L’esercizio intellettuale, le relazioni sociali evitano il declino cognitivo caratteristico degli anziani. Dai nostri comportamenti virtuosi dipende anche la sostenibilità del Servizio sanitario. In realtà, questa attenzione alla prevenzione ha un conflitto di interessi con il mercato della medicina. Se tutti smettessero di fumare, si alleggerirebbe il lavoro di molte chirurgie toraciche. Se si diffondessero i buoni stili di vita, le industrie farmaceutiche e dei dispositivi medici dovrebbero ridimensionare la loro attività. La promozione di uno stile di vita corretto non riguarda solo la Sanità. È un obiettivo che deve coinvolgere tutta la società, dalle istituzioni alla scuola e alla famiglia.
In che modo, secondo lei, possiamo sensibilizzare i più giovani sul “valore della prevenzione” affinché, crescendo, più che accaniti consumatori di farmaci diventino persone attente alla propria salute e al benessere collettivo?
Anzitutto, esaltando la scienza nella scuola. È vero che si insegnano già discipline scientifiche, ma queste rappresentano i contenuti della scienza e sono destinate a cambiare nel tempo. È invece fondamentale insegnare anche la metodologia scientifica essenziale per una buona educazione sanitaria.
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