Dopo la contrazione del 2020 e la crescita contenuta del 2021, si registra un +545mila unità. A crescere nel tempo, secondo l’Istat, è stata soprattutto la fascia anziana dei lavoratori È l’effetto demografico
Lavoro che cambia, lavoro che c’è, lavoro che sparisce, lavoro che torna, lavoro sempre più agile. Tra cloud, ibrido o reskilling (riqualificazione, ndr) il settore dell’impiego in Italia ha intrapreso, da almeno un paio di anni, una rivoluzione copernicana che sta cambiando il nostro modo di produrre, di lavorare, di “essere” persino sul posto di lavoro.
Il punto di non ritorno, ovviamente, la pandemia da Covid-19 che ha finito col rendere reale tutto quanto appariva né più né meno solo come una tendenza. Una tendenza che sembrava distante, osservata dal buco della serratura persino dagli addetti ai lavori, nella convinzione che avrebbe riguardato generazioni più lontane. O che non fosse poi tanto vicina.
Di fronte a un cambiamento così radicale e immediato come quello dell’attuale transizione digitale, qualche ritardo di comprensione è fisiologico. Il disorientamento che vive oggi il mondo del lavoro si traduce in una sorta di disallineamento tra domanda e offerta di professionalità, dubbi sulla scelta dei percorsi di formazione, scomparsa e nascita di nuove professioni.
Impreparati al fenomeno dell’invecchiamento della popolazione – ma questo lo sapevamo già – lo siamo ora davanti alle dinamiche fluttuanti del mercato lavorativo, già di per sé molto complesso. Persino al netto della profonda trasformazione tecnologica che ci ha investiti e a cui, nel frattempo, ci stiamo progressivamente adeguando.
Aumentano gli occupati rispetto ad un anno fa
In questo scenario fluido e complesso qualche buona notizia c’è: i dati Istat di febbraio scorso dipingono un quadro rassicurante con un’occupazione in ripresa se rapportato allo stesso periodo di un anno fa: +352mila unità. Rispetto a febbraio 2022, infatti, è sceso sia il numero delle persone in cerca di lavoro (-4,5%, pari a -94mila unità) che quello di inattivi tra i 15 e i 64 anni (-3,1%, pari a -398mila). È stabile anche il numero degli occupati: a febbraio scorso, confrontato con il mese di gennaio, è rimasto superiore alle 23milioni e 300mila unità.
I dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS), della Banca d’Italia e dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) – pubblicati su cliclavoro.gov.it – confermano questa tendenza: se il lavoro aveva frenato nella seconda metà del 2022, nei primi due mesi del 2023 la domanda nel privato è tornata a crescere a ritmi sostenuti, visto che tra gennaio e febbraio di quest’anno sono stati creati oltre 100.000 posti. Al netto delle cessazioni è un incremento che “doppia” quello del bimestre precedente (novembre-dicembre 2022) e che porta in particolare la firma del settore dei servizi, sebbene anche la manifattura abbia ripreso a crescere insieme all’industria (quest’ultima penalizzata la scorsa estate dal rincaro dell’energia).
Se si guarda alle singole aree e ad un orizzonte di tempo più ristretto e più vicino a noi, i dati di cliclavoro.gov.it ci dicono che la crescita della domanda di lavoro – nel complesso – è stata più marcata nelle regioni del Centro‑Nord. Proprio qui, nel primo bimestre del 2023, si è concentrato oltre l’80% dei posti di lavoro creati. Dal canto suo anche il Mezzogiorno, superato il ristagno della seconda metà del 2022, ha visto una dinamica occupazionale in crescita per la percentuale rimanente.
A crescere è soprattutto la fascia degli over 50
Riportando le lancette dell’orologio ancora un po’ più indietro, i dati Istat ci dicono che gli occupati nella media del 2022 sono cresciuti di 545mila unità rispetto al 2021. Una tendenza positiva, che arriva da lontano e che ha riportato la situazione ai livelli del 2019. Gli aumenti hanno riguardato uomini, donne e tutte le classi d’età, eccetto quella dei 35-49enni per via delle attuali dinamiche demografiche.
C’è poi chi tende a crescere più degli altri: sono gli over 50. Secondo l’Istat, tra gennaio 2022 e gennaio 2023, gli occupati over 50 sono aumentati di 323mila unità (+3,6%), con un bel colpo di acceleratore tra dicembre 2022 e gennaio 2023: +67mila unità. Davvero minima invece la crescita degli occupati tra i 35 e i 49 anni: nell’ultimo anno è stata appena dello 0,1% (10mila unità). Così come non cresce molto la fascia tra i 25 e i 34 anni (+1,8%, ovvero 73mila unità), mentre la classe di popolazione tra i 15 e i 25 anni ha registrato un incremento tra gennaio 2022 e gennaio 2023 più consistente (+4,8%, ovvero 53mila unità).
Certamente il boom occupazionale degli over 50 va ben inquadrato, letto attraverso la lente delle attuali tendenze demografiche. La popolazione in età da lavoro (15-64 anni), infatti, va sempre più riducendosi e nel solo 2022 è scesa di 133mila unità. Sono gli effetti di una piramide demografica ormai rovesciata, con sempre meno giovani a popolare il mercato del lavoro. Una condizione che ci fa capire – almeno in parte – da cosa derivi questo incremento.
Le aziende riassumono gli over 50
Calo delle nascite e invecchiamento della popolazione: sono questi i fattori che stanno facendo sentire i loro effetti anche sul mondo del lavoro, indebolendo il turn-over generazionale. Secondo il 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, negli ultimi dieci anni (2012-2022), gli occupati delle fasce d’età 15-34 anni e 35-49 anni sono diminuiti. I primi hanno segnato un -7,6%, i secondi un -14,8%. Assai diversa la situazione per i 50-64enni e quelli con 65 anni e oltre: sono aumentati rispettivamente del 40,8% e del 68,9%.
La fotografia è quella di un mercato del lavoro che sta vivendo un forte divario generazionale. Tuttavia, la risalita degli occupati over 50 non è da imputare solamente all’invecchiamento generale. Dopo anni passati a tagliare il “tagliabile”, a ridurre le spese licenziando, ad abbattere i costi per restare competitive a scapito delle risorse umane più anziane, le imprese sembrano aver invertito la tendenza. I continui riassetti interni hanno finito col lasciarle a corto di profili, svuotate di competenze e di quella cultura che è indispensabile nelle posizioni di vertice. Così – proprio come dimostrano i numeri dell’occupazione – hanno preso a rivalutare i lavoratori over, complice un’economia che continua a marciare e che ha bisogno di attingere a tutti i bacini professionali. Un’ulteriore spinta arriva dai concorsi pubblici, anche questi caratterizzati dalla richiesta di iper-competenze da sfruttare nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Messi alla porta, gli over 50 stanno rientrando nel mondo del lavoro dalla finestra. Un fenomeno che negli Stati Uniti chiamano “re-hiring” (riassunzione, ndr). Esperienza, cultura aziendale, ridotte necessità di formazione sono solo alcune delle caratteristiche che stanno inducendo le aziende ad assumerli. I lavoratori maturi hanno infatti quella che si definisce “intelligenza organizzativa”, una capacità che si sviluppa solo col tempo. Sanno come muoversi, sanno interpretare le situazioni e individuare le soluzioni, dimostrano autonomia nel lavorare e gestire le persone anche a distanza. Tutte qualità che, secondo le aziende, fanno la differenza.
I giovani in contrapposizione ai senior
Intanto, sotto la rassicurante superficie di un mercato del lavoro che tira, la situazione delle fasce più giovani si contrappone a quella senior. Tra le prime appare più diffusa la great resignation, cioè il significativo aumento delle dimissioni, e il quiet quitting o “lavorare meno”. Come per il resto della popolazione, a spingerli a dimettersi per trovare un altro impiego ci sono le più disparate motivazioni: burnout, bisogno di un posto in cui salvaguardare il proprio benessere, desiderio di gestire meglio il delicato equilibrio vita-lavoro. Un cambiamento culturale innescato dalla pandemia, che ha irrevocabilmente cambiato ciò che le persone si aspettano dal lavoro, rivalutando le loro priorità.
Il 6° Rapporto Censis-Eudaimon su questo punto è chiaro: ben il 46,7% degli occupati italiani lascerebbe la sua occupazione attuale. Una percentuale che sale al 50,4% tra i giovani e al 45,8% tra gli adulti. Alta anche fra gli operai, al 58,6%; meno fra gli impiegati, al 41,6%; solo al 26,9% tra i dirigenti. Tra le motivazioni ovviamente c’è lo stipendio, considerato non adeguato alle proprie esigenze dal 44,2%, percezione che cresce sino al 53% tra i giovani lavoratori. Ma forse con un tasso di occupazione che all’inizio di quest’anno era poco sopra il 60%, anche ottenere il tanto agognato posto di lavoro potrebbe non essere più solo un sogno ad occhi aperti.
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