La pandemia prima e i conflitti poi sono stati e continuano ad essere, spesso, causa di malessere tra i giovanissimi. Dati recenti raccontano un aumento di fragilità in età adolescenziale. Cosa possiamo fare per non lasciare solo nessuno?
Li sorprendiamo silenziosi, con lo sguardo incollato al display di un telefonino, o in gruppo, ma distanti. E anche nella penombra della cameretta ad ascoltare canzoni mentre il compagno di classe festeggia il compleanno o gli amici sono in gita. “L’adolescenza è un’età particolare”, la frase che abbiamo sentito più spesso da piccoli che – ogni tanto – da grandi ci capita di pronunciare, quasi con una felice consapevolezza di sapere che è così che le cose devono andare. Siamo consapevoli che si pianga per il primo amore non corrisposto, che si marini la scuola per stare insieme agli amici, che si dica qualche bugia e che, nascosti dietro a un muretto, si fumi la prima sigaretta.
Nell’immaginario collettivo l’adolescenza è esattamente così. Almeno fino alla pandemia. Già perché il lockdown imposto per contrastare la diffusione del Covid-19 prima, la guerra Russia-Ucraina poi e il conflitto a Gaza hanno ridisegnato, e continuano a farlo, l’orizzonte di senso per i giovani e per gli adulti. Se però gli adulti hanno – si spera – le spalle larghe per affrontare e interpretare quanto di più vicino o di più lontano si prende la scena, non tutti i giovani, e non tutti gli adolescenti possiedono gli strumenti utili a discernere la paura e le sensazioni dai fatti, dagli avvenimenti e dalle notizie. Sono, loro malgrado, collocati in uno spazio che altera il valore delle cose. In questo contesto socioeconomico-culturale, la domanda da porre è questa: cosa possiamo fare noi adulti, genitori, fratelli, nonni, per arginare i disagi che vive una percentuale sempre più importante di giovani?
Prima di tutto, esserci. Esserci con l’ascolto, con la parola. Con la presenza, possiamo contribuire a creare un ambiente sicuro e accogliente in cui i giovani esprimano i loro pensieri e i loro sentimenti senza la paura di essere giudicati. Dobbiamo essere disposti a comprendere le loro preoccupazioni e i loro timori, anche se, a volte, sembrano irrilevanti o esagerati. Abbiamo il dovere di insegnare loro che l’ansia e la tristezza possono essere affrontate in modo sano e costruttivo, combattendo lo stigma associato alla salute mentale. Incoraggiamo una cultura in cui chiedere aiuto non è segno di debolezza ma un atto di coraggio e auto-consapevolezza.
Fermiamoci ad ascoltare quello che i giovani hanno da dire e fermiamoci ad ascoltare, inoltre, le parole che i giovani non riescono a pronunciare, perché è anche nei ‘non-detti’ che si nascondono disagi e tormenti. È su quelli che bisogna indagare per non generare fraintendimenti che – spesso – portano a spiacevoli conseguenze. Questo però dobbiamo farlo tutti insieme perché in questo processo che contrasta l’isolamento siamo tutti coinvolti. Siamo tutti responsabili del benessere delle persone e delle dinamiche sociali. La famiglia, in primis, la scuola, il gruppo dei pari, le istituzioni. Se ognuno facesse la propria parte, tutti contribuiremmo a costruire una comunità fondata sul rispetto verso gli altri, dei giovani e delle persone anziane; una società fondata sul coraggio di non arrendersi alle difficoltà. Dobbiamo impegnarci affinché nessuno si senta solo mai.
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