È la superstar del trasformismo internazionale. Uno dei cinque italiani ad avere una statua al Museo delle cere Grévin di Parigi. Deve alla Francia il suo primo spettacolo andato in scena nel 1979. Da allora, lo hanno visto a teatro oltre 3 milioni di spettatori
Sono passati più di quarant’anni dal suo debutto al Paradis Latin di Parigi. È il 1979 quando un giovanissimo Arturo Brachetti muove i primi passi nel mondo dello spettacolo. «Non ero il trasformista più bravo al mondo – dice a 50&Più. Ero semplicemente l’unico». Sì, perché, dai tempi di Fregoli – protagonista del secolo precedente – nessuno si era più cimentato nell’arte del quick change. Ma, soprattutto, nessuno mai come Brachetti ha battuto ogni record entrando di diritto nel Guinness con meno di due secondi a cambio.
Un artista che ha saputo fare tesoro dell’insegnamento di Jean-Marie Rivière, il re delle notti parigine, direttore artistico -oltre che del Paradis Latin – anche dell’Alcazar: lui, icona indiscussa del cabaret. «Il bello del varietà – dice Brachetti – è l’assenza di regole, la ricerca della meraviglia. Io, per età e professione, mi meraviglio ormai poco avendo visto il dietro le quinte di ogni spettacolo. Ma non mi do per vinto: rincorro ancora stupore e meraviglia».
Quando ha scoperto la magia?
A 13 anni, quando sono andato a studiare in collegio: ho fatto il seminario dai salesiani. È lì che ho conosciuto un prete illusionista (Don Silvio Mantelli, Ndr) che mi ha insegnato i giochi di prestigio. Ma al di là di questo, mi ha aiutato a trasformare la timidezza in una risorsa, facendo leva sulle mie capacità. A pallone ero negato, ma coi giochi di prestigio facevo la mia bella figura. Eppure, mi vergognavo a stare in scena e per questo mi esibivo sempre mascherato. Un bel giorno il sacerdote mi disse: «Non fa nulla se non hai la vocazione religiosa. L’importante è che tu abbia una vocazione». Ed io ce l’ho ed è quella di far sognare gli altri.
Quanto conta la fantasia nella vita?
Per me è tutto e lo è stata fin da piccino. Sono cresciuto in una città grigia come era Torino negli anni Sessanta. Papà impiegato in Fiat, nonno operaio Fiat e la mamma casalinga: la mia era una famiglia umile. Non ho avuto molti giochi ma la fantasia, quella sì, non mi è mai mancata. Ricordo, ad esempio, che costruivamo la teleferica coi fili da un balcone all’altro. La Tv in casa mia è arrivata che avevo 12 anni; la prima volta al cinema, ne avevo otto e solo per vedere Mary Poppins.
Oggi è in scena con Solo, il suo spettacolo. Come lo definirebbe?
È un varietà magico, surrealista intorno al personaggio di Arturo: un Peter Pan tredicenne, imprigionato nel corpo di un 62enne. In scena cerco di raccontare che il viaggio non è mai finito e che non esiste una giovinezza, una seconda giovinezza: la fine della vita la decidiamo noi perché la vita è il viaggio. Anche nella vita, non sono uno che guarda al passato. Sono sempre proiettato nel futuro. L’ombra, come quella di Peter Pan, ci porta verso la terra, la quotidianità, la razionalità mentre io voglio volare. Non a caso, una delle frasi che dico alla mia ombra sul palco è: «Voglio continuare a imparare, a sognare, a volare con la mia fantasia». Così, nella vita.
Lei è nato nel 1957. Si fa fatica a crederle…
Un po’ è merito della genetica: mia madre ha 83 anni e, se la chiamo a mezzanotte, magari sta andando in macchina al mare a trovare le amiche. La scorsa estate ho ricevuto un sms: «Sono sulle Alpi, stanno facendo del deltaplano assistito, vorrei assolutamente provare». Questa è mia madre.
Non sarà solo genetica, però…
Faccio una dieta ferrea, vado in palestra e poi molto dipende da quanto noi vogliamo essere ancora giovani, quanto la nostra energia vitale è proiettata verso il futuro. Quando mi chiedono quale sia il giorno più bello, rispondo che ce ne sono stati tanti, ma quello più bello è nel futuro. Io me lo immagino domani. Sono una persona che tende a guardare sempre avanti. Quando incontro coetanei ancorati al passato, che ricordano con malinconia i tempi andati, ripeto sempre: il giorno più bello deve ancora arrivare.
Ha sempre avuto questo spirito?
No, assolutamente. Sono stato ragazzo negli anni Settanta, gli anni del carpe diem. Ho morso la vita istante per istante, con avidità: a quarant’anni ho imparato a guardare oltre.
Torniamo ai suoi esordi. Il trasformismo come è diventato la sua professione?
Degli illusionisti che mi videro esibire mi consigliarono di cercare un libro su Fregoli: era stato un grande trasformista e io volevo saperne tutto. Così divorai una sua autobiografia e misi su il mio primo spettacolo con sei personaggi. Una volta a Parigi, divenni allievo di Jean-Marie Rivière e debuttai piuttosto facilmente: non ero il trasformista più bravo al mondo, ero semplicemente l’unico.
A casa l’hanno sostenuta?
Mia madre sì: mi cuciva gli abiti di scena. Papà guardava alla cosa con molto scetticismo. Ad oggi riconosco che quel suo fare dubbioso mi abbia aiutato. Ho sempre cercato di fare il meglio per potergli dire: «Vedi papà, te lo avevo detto che ce l’avrei fatta».
Ci sono maestri cui sente di dover dire grazie?
Macario e Tognazzi, dai quali sento di aver imparato tanto. Macario, una volta al mese, veniva a pranzo dai Salesiani dove studiavo. Io lo aspettavo davanti al refettorio perché volevo imparare tutto da lui. Mi invitava spesso dietro le quinte e talvolta si accorgeva di me e mi faceva l’occhiolino. È stato il mio primo maestro e l’ho vampirizzato, come bisogna fare con i grandi.
Lo stesso ha fatto con Tognazzi?
Lui aveva il pallino della naturalezza: la stessa che io cerco di portare in scena quando, ai miei tanti personaggi, alterno Arturo.
Arturo quanto è diverso dal personaggio che è sul palco?
Non credo molto. Sono uno che nella propria vita gode della gioia e dello stupore degli altri. La cosa più bella che mi sono sentire dire? Un bambino, dopo uno spettacolo al Sistina: «Arturo, ma tu torni a casa volando o col taxi?». Mi aveva visto volare in scena per tutto il tempo e si è domandato se ero in grado davvero di volare. Non è bellissimo?
Lei riesce a conservare lo stupore?
Vista l’età e l’esperienza, faccio fatica. A teatro, ad esempio, conosco il dietro le quinte di ogni spettacolo, ma non mi do per vinto: rincorro ancora stupore e meraviglia. Pensi che ho ristrutturato casa lasciandomi un po’ prendere la mano: ho muri che si spostano, librerie girevoli, specchi parlanti e giochi d’acqua luminosa. Persino il frigo si fa fatica a trovare: sembra un armadio con dentro la pasta, ma poi scopri che il frigo c’è e al suo interno parte dei prodotti è vera e parte no. Io dico sempre: l’uovo vero? Provalo, se rimbalza vuol dire che è quello sbagliato. Non tutto è come appare e sul palco, come nella vita, ho creato un vero e proprio parco giochi.
C’è un erede di Arturo Brachetti?
Io, in scena, porto un mondo che è solo mio. Ad ogni giovane, il compito di inventarsene di nuovi e ce n’è di nuovi artisti e talentuosi. Ma oggi costruirsi il proprio immaginario non è facile: i ragazzi stanno troppo su Internet. Quando ero piccino io, la parola chiave era la fantasia. I Social Network ci spingono all’omologazione e creano forme di frustrazione: io, pur essendo stato il primo artista ad avere un sito Internet negli anni Ottanta, oggi del web non vado pazzo e gli preferisco sempre e comunque un libro.
Come si spiega che a teatro si va sempre di meno?
Il teatro non deve annoiare. Ci sono spettacoli in cartellone che vanno deserti e che, nonostante tutto, continuano a essere nelle sale. Mentre in altre Nazioni i giovani vengono accompagnati a vedere spettacoli di intelligente intrattenimento, da noi si propinano lavori di una noia mortale. Le storie devono affascinare, stupire: troppo spesso il teatro pensa più a se stesso che allo spettatore.
Pensa mai alla sua vecchiaia?
Ci penso eccome. La immagino ricca: di spunti, di nuovi viaggi, spettacoli ed esperienze. Insomma, ci immagino dentro un po’ di tutto. Con maggiore lentezza, senza frenesie: ma ricca, piena un po’ di tutto.
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