Nella comunità terapeutica che accoglie adolescenti e giovani adulti. Mingarelli: «Il nostro modello di lavoro coinvolge le famiglie perché non dobbiamo dimenticare che la comunità è temporanea la famiglia invece resta»
In provincia di Como la Fondazione Rosa dei Venti si occupa da 26 anni di fragilità e difficoltà psichiche di adolescenti e giovani adulti. La storia di questa realtà comincia nel 1997 con la nascita di una comunità terapeutica per minori, voluta dagli attuali presidente e vice-presidente Luca Mingarelli e Monica Cavicchioli, che si differenzia dalle altre, negli anni Novanta, per un approccio che include l’arte e la natura.
«All’epoca le comunità che rientravano nell’area sanitaria avevano una connotazione più medicalizzata – spiega Elisa Mingarelli, responsabile comunicazione e progetti della Fondazione –, la nostra è nata includendo arte e natura come elementi che facilitano la terapia, oltre alla parte educativa che è altrettanto fondamentale».
Come si è evoluto il lavoro della Fondazione sino ad oggi?
Nel 2007 avviene il primo trasferimento e poi, nel 2014, mossi dall’aumento esponenziale di richieste di inserimento in comunità, la Fondazione ha rilevato Villa Plinia, una ex fabbrica di imbottigliamento dell’acqua, e l’ha trasformata in un nuovo centro. Arte e natura continuano a essere alla base dei nostri percorsi di cura, che hanno l’obiettivo di far ritrovare, o far scoprire all’adolescente una quotidianità, una routine, che può aver perso o che magari non ha mai avuto. Sembrano cose scontate, ma trovare la colazione tutte le mattine, avere cura dei propri spazi, occuparsi della cucina, sono tutti strumenti concreti verso l’autonomia.
Chi sono i vostri ospiti?
Sono adolescenti fra i 13 e i 18 anni, spesso anche fino ai 21, ma alle comunità terapeutiche che sono delle vere e proprie residenze, affianchiamo anche i centri diurni. Il nostro modello di lavoro coinvolge le famiglie, teniamo incontri periodici con gli ospiti, il personale e i parenti perché non dobbiamo dimenticare che la comunità è temporanea, la famiglia invece resta e bisogna trovare il mondo di relazionarsi, capirne i limiti e le risorse.
Negli ultimi anni avete anche introdotto la cosiddetta residenzialità leggera. Di cosa si tratta?
Al compimento dei 18 anni c’è il rischio che tanti ragazzi, che hanno ancora delle fragilità pur se maggiorenni, vengano abbandonati dalle istituzioni. Le conseguenze di questi disagi psicologici ricadono su di loro, ma anche sulle famiglie e sulla società. Per questo abbiamo deciso di occuparci anche dei giovani adulti, fra i 18 e i 28 anni, con la residenzialità leggera, una formula diversa dalla comunità terapeutica per chi non necessita di un’assistenza con terapia residenziale, ma ha bisogno di un supporto per l’inserimento lavorativo, di studio, sociale.
Si parla spesso di disagio psicologico fra i più giovani come di un fenomeno in crescita: in base alla vostra esperienza c’è stato un aumento di casi di difficoltà e fragilità?
Sì, i casi sono aumentati, e la pandemia ha segnato un prima e un dopo: fra il 2019 e il 2020 le richieste di inserimenti in comunità sono raddoppiate, e anche i percorsi diurni o di residenzialità leggera, che funzionano come prevenzione, se ci sono disagi familiari.
Negli ultimi anni avete cominciato a occuparvi non solo di cura ma anche di prevenzione. Come?
Lavoriamo con le scuole, secondarie di secondo grado ma anche di primo, sempre attraverso l’arte e la natura. Il fumetto è uno strumento che con i giovani funziona molto bene, perché consente di individuare precocemente una situazione di disagio prima che diventi una psicopatologia. L’importante è cogliere subito i segnali per non far si che si acutizzino. Perché ogni disagio nasconde una sofferenza. La collaborazione con le scuole è l’ideale per entrare in contatto con adolescenti di ogni provenienza. L’altro aspetto molto utile è il dialogo tra scuola e comunità: capita di organizzare dei laboratori educativi con le scuole nel nostro parco e lì vite diverse hanno l’occasione di entrare in contatto. Capire che ci sono coetanei che possono aver subìto un abuso, o che siano stati sottoposti a situazioni tossiche, aiuta a sensibilizzare e a sviluppare empatia.
Qual è la strada per aiutare a superare un disagio psichico?
Noi ci focalizziamo sull’individuazione dei talenti dei ragazzi: lavorare su ciò che si è in grado di fare, su ciò che piace, aiuta a portare consapevolezza. I ragazzi della comunità dialogano con l’esterno, vanno a scuola, fanno la spesa, frequentano il centro della città, partecipano a visite guidate. Abbiamo creato un apiario per seguire non solo il processo di produzione del miele, ma anche per capire meglio il mondo delle api, che può essere da spunto con la sua struttura sociale; i ragazzi suonano il taiko, il tradizionale tamburo giapponese, che muove una grande energia, e poi ci sono i laboratori in natura connessi agli elementi primati. Organizziamo anche le cene sociali con il contributo volontario di chef stellati, che trasmettono la loro passione. Le attività sono sempre diverse, perché anche i ragazzi cambiano, e quelli di 13 anni fa, quando io ho iniziato, non sono quelli di oggi.
Quanto la tecnologia ha influito in questo cambiamento?
La tecnologia ha cambiato il mondo, soprattutto per i giovani, e credo che in questo momento sia abusata, ma la responsabilità è degli adulti, che non sanno bene come rapportarsi e faticano a dare un insegnamento ai ragazzi. Anche l’abuso di tecnologia oggi rientra fra le patologie, ma la differenza la fa l’uso: può diventare una dipendenza ma può anche portare effetti positivi nelle nostre vite, l’importante è scegliere e non subirne i contenuti. Mettere insieme il mondo della natura con quello della tecnologia è la strada per un mondo equilibrato e rispettoso.
© Riproduzione riservata