Quello che vediamo nei musei è solo una piccola parte delle opere a disposizione, spesso relegate in ricchissimi magazzini. Molte di queste raramente verranno esposte. Un problema risolvibile con la disponibilità di maggiori risorse e spazi necessari.
L’arte in Italia, ma spesso anche per le maggiori istituzioni museali del mondo, è un iceberg. Se ne può vedere solo il 10-15%, la parte restante è sommersa nei depositi e negli archivi. La funzione di conservazione, considerata sempre la più importante, ha spesso travalicato quella sancita dall’International Council of Museums (ultimo aggiornamento del 22 agosto scorso), la quale afferma che un museo, per essere tale, debba promuovere la diversità e la sostenibilità, operare e comunicare «in modo etico, professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo svariate esperienze di educazione, divertimento, riflessione e condivisione delle conoscenze». E sottolinea che, «senza fini di lucro, al servizio della società, ricerca, raccoglie, conserva, interpreta ed espone un patrimonio materiale e immateriale».
È già della fine dell’800 la regola che caratterizza l’operatività dei musei: le opere d’arte più celebri sono esposte al pubblico, quelle che rivestono principalmente un interesse scientifico finiscono in deposito, ad uso e consumo degli studiosi. Le collocazioni museali italiane, spesso in palazzi di antica edificazione e vincolati – i cui spazi sono stati riadattati – non consentono quasi mai la fruizione della maggior parte delle opere, ormai pressoché stabilmente divise in tre categorie: i capolavori intoccabili, quelle che possono ruotare nell’esposizione (o che possono essere concesse in prestito a musei minori del territorio) e quelle stabilmente confinate nei depositi. Con la variante delle opere di cui è valutabile la concessione per mostre temporanee, reperibili, ma di rado, anche nell’ultima fascia.
In queste condizioni è ovvio che esporre tutto il patrimonio è impossibile. Già un semplice ampliamento delle superfici visitabili comporterebbe costi sempre elevatissimi. La situazione non è paragonabile a quella del museo etnografico della British Columbia University di Vancouver che, nel 1976, progettò il primo deposito completamente accessibile ai visitatori. Per il visible storage serve una predisposizione precisa fin dalle istruzioni date agli architetti progettisti, come avvenuto per il MUDEC di Milano sull’esempio di grandi musei americani (e del parigino Musée du quai Branly dell’archistar Jean Nouvel, che ospita in una torre di vetro alta 27 metri e divisa in sei livelli, oltre che 10mila strumenti musicali etnici provenienti da tutto il mondo).
In questa direzione ha fatto scalpore, giusto un anno fa, l’apertura del Depot del museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (espone in sede solo il 7% della raccolta), perché la nuova costruzione vede i quadri conservati su tre piani in rastrelliere disposte a seconda delle esigenze di conservazione e non per periodi storici, e offre un giardino delle sculture, laboratori per il restauro e ottimi servizi per i fruitori, tra cui un ristorante stellato. E restiamo in attesa di vedere completate le nuove storehouse del Louvre e del Victoria & Albert Museum londinese.
Ben diversa è la generalizzata situazione italiana, nonostante la parole d’ordine lanciate da Matera, Capitale europea della Cultura 2019: «L’essenziale è invisibile agli occhi». Purtroppo, viene da aggiungere, perché gli spazi sono quelli che sono, anche se si sta cercando di aumentarli e razionalizzarli. Quali interventi attuare nell’immediato? Almeno due, come afferma Eike Schmidt, il direttore degli Uffizi di Firenze, tra i più attivi nella valorizzazione dei depositi: la rotazione e soprattutto l’allestimento dislocato, «inteso come una vera e propria operazione scientifica: esporre opere finora inaccessibili in luoghi vicini a dove le persone vivono e lavorano». Come corollario, determinante rimane la digitalizzazione di quanto conservato (il suo impulso è stato l’unico, o quasi, effetto positivo del lockdown), la cui visibilità virtuale non è certamente paragonabile a quella de visu. Però è anche un mezzo per attuare quelle attività di studio e ricerca che sono alla base delle rotazioni, dei prestiti e le esposizioni tematiche che vari musei attuano come metodo di presentazione dei propri patrimoni “occulti”.
Non sono numerosi gli esempi felici, come la Pinacoteca Brera di Milano, il cui direttore James Bradburne dice: «Rispetto ad altri musei, Brera espone gran parte della sua collezione, ben oltre i due terzi. Tuttavia, non tutta la collezione è visibile nel Palazzo di Brera, poiché gran parte di essa si trova nei cosiddetti “depositi esterni”, aperti al pubblico in chiese, uffici pubblici e altri musei. Attualmente stiamo lavorando a un grande progetto di mappatura ed etichettatura di tutti gli oggetti esposti nei depositi esterni, a partire da quelli presenti nelle chiese e nei musei milanesi».
Va però detto che nei depositi, oltre a importanti nuclei di difficile conservazione – dalle stampe ai disegni – e di impossibile esposizione continuativa, una certa percentuale delle opere avrebbe bisogno di un restauro e un’altra parte poco aggiungerebbe a quelle già visibili, senza dire delle croste di bassissimo livello artistico e culturale, frutto di acquisizioni più ampie. Questo induce diversi operatori a spingere per consentire e regolamentare il deacessioning, diffuso nel mondo anglosassone, ma in Italia proibito dall’articolo 54 del Codice dei Beni Culturali, che ne prevede l’inalienabilità.
Paolo Manazza, direttore di ArtsLife.com ed esperto del mercato dell’arte per il Corriere della Sera, è «assolutamente d’accordo con chi pensa che una certa parte minore delle opere conservate nei depositi potrebbe essere venduta per finanziare una migliore fruizione di quelle esposte». E specifica: «Il problema sarebbe quello di istituire un comitato di esperti che, insieme ai direttori museali, possano scegliere quali. Negli Usa, ad esempio, vendono delle opere minori o di artisti già ben rappresentati nelle sale, per compiere ulteriori acquisti di capolavori da esporre».
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