Il progetto nasce nel 2018 da un’idea di Enzo Suma con l’obiettivo di sensibilizzare sull’inquinamento in mare prodotto dalla plastica. Sono esposti oggetti prodotti addirittura negli anni Cinquanta o recanti il prezzo in lire
Ogni anno dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari di tutto il mondo, causandone l’80% dell’inquinamento totale. Quasi tutti i rifiuti arrivano in mare spinti dal vento o trascinati dagli scarichi urbani e dai corsi d’acqua. Bottiglie, imballaggi, reti da pesca, sacchetti e altri oggetti si rompono in frammenti sempre più piccoli per l’erosione dell’acqua, e finiscono con l’essere ingeriti da pesci e uccelli marini, mettendone a rischio la sopravvivenza.
«Tutto il materiale che troviamo in spiaggia è il riflesso del modello di consumo che utilizziamo dall’inizio dell’era della plastica, ossia dalla fine degli anni Cinquanta – spiega Enzo Suma, ideatore di Archeoplastica, un progetto di sensibilizzazione sull’inquinamento in mare da plastica – e il paradosso è che abbiamo creato un prodotto destinato a durare centinaia di anni e poi lo abbiamo usato per applicazioni che durano poco, qualche settimana, pochi giorni, addirittura ore».
Come è nato il museo virtuale di Archeoplastica?
Il progetto è stato ufficializzato due anni fa, ma l’idea è nata nel 2018, con il primo oggetto trovato in spiaggia che mi ha fatto riflettere sulla sua età. Da tempo organizzavo le raccolte di rifiuti, ma fino ad allora li avevo sempre trattati con distacco, raccogliendoli e mettendoli nel sacco. Quella volta mi è capitato un flacone di uno spray abbronzante col prezzo in lire, cosa che mi ha fatto capire che poteva avere almeno una ventina d’anni. In realtà poi ho scoperto che era in commercio tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Da allora ho cominciato a fare attenzione a tutto ciò che trovavo in spiaggia: in poco tempo avevo trovato già diversi pezzi “da museo” e lì mi è venuto in mente di metterli insieme e avviare un progetto strutturato. Così è nata Archeoplastica, con il museo virtuale e le riproduzioni 3D che avevo visto nei musei archeologici.
Qual è il valore aggiunto di sensibilizzare tramite la conoscenza e la memoria degli oggetti?
Mi piaceva raccontare il problema attraverso i reperti che il mare restituisce, facendo una comunicazione non aggressiva nei confronti del consumatore e del produttore, che permettesse di vedere con i nostri occhi il risultato materiale dell’inquinamento: tutti sanno che la plastica dura secoli, ma un conto è leggerlo, un altro è vedere un oggetto di cinquanta, sessanta anni fa praticamente intatto, a parte qualche graffio, e con l’etichetta ancora leggibile.
© Riproduzione riservata