Quando fummo colpiti da un’epidemia su vasta scala, correva l’anno 1968. Non ne conservo memoria, anche se ero già in questo mondo, e mi affacciavo, con passione e inquietudine, all’adolescenza. Eppure, leggo, picchiò duro. Noi giovani di allora ci sentivamo immortali e potentissimi, padroni delle nostre vite e ben decisi a spadroneggiare anche sulle vite degli altri.
Eravamo, come i giovani del 2020, ben decisi a divertirci senza limiti. Ci piaceva tirare tardi. Bere parecchio. Fare casino. Leggo che il virus si chiamava A-H3N2 e fece 20mila morti (ma altre fonti dicono un milione). Leggo che non chiusero i cinema né i teatri né i ristoranti. Leggo, dalla testimonianza di un anziano medico che, all’epoca, era un giovane medico: «Nel 1968 era impensabile chiudere un cinema». I cinema erano sempre pieni. Altri tempi, soprattutto per le proporzioni demografiche: nel 1968, ad ogni persona che aveva più di 65 anni ne corrispondevano 4 con meno di 25 anni. Oggi il rapporto è di uno a uno.
Noi, over 65, siamo numerosi come non siamo mai stati. Loro, gli under 25, non sono mai stati così pochi. Perché vi racconto questo? Perché sono preoccupata per noi. Per me, per voi. Per tutti i coraggiosi navigatori del terzo tempo.
Da quando la pandemia ci ha costretti a pensare alla malattia, all’ospedalizzazione e alla morte con la stessa frequenza con cui, una volta, si pensava ai viaggi, alle vacanze, a organizzare una memorabile serata di pizza e cinema, noi “anziani” (metto le virgolette perché la parola non mi piace) viviamo un’esperienza inutilmente depressiva. Ci sentiamo superflui: “se ci siete bene, se non ci siete più fa lo stesso”. Tanto vita ve ne rimane comunque poca. Tanto siete in pensione. Tanto non siete più né fertili né produttivi.
Ci hanno detto più volte, nel corso di questo sciagurato 2020, che non dovevamo uscire di casa perché se ci fossimo ammalati avrebbero scelto di curare persone più giovani. Non dovevamo uscire di casa perché eravamo fragili, e i fragili è meglio se si levano dai piedi. È meglio se non intralciano la vita difficile dei forti.
Ci hanno detto che il virus cavalca sui corpi robusti dei giovani, ma poi si scarica, come un fulmine, su quelli usurati dei vecchi. Ci hanno fatto sentire in pericolo, ma anche in scadenza, quasi fossimo una specie particolarissima di “persone-formaggio” con la data di scadenza sulla confezione, oltre la quale vanno depositate nelle apposite discariche.
È stata dura mantenere quel minimo comune buon umore che ci permette di vivere. Ce l’abbiamo fatta? Lo chiedo a voi. Ce l’avete fatta? Aspetto le vostre lettere sul tema. Come è stato questo maledetto 2020, palindromo e bisestile, per la vostra anima? Incomincio io? Okay. Io ho due momenti delicati, nella giornata, il risveglio e il momento in cui mi allungo verso il comodino, chiudo il libro che sto leggendo e spengo la luce. Cerco di pensare qualcosa di piacevole, prima che mi inghiotta il buio e, la mattina dopo, prima che la luce del giorno mi spedisca nel mio studio a lavorare. Devo pensare un piccolo progetto di felicità. Prima avevo le partenze e i ritorni, gli incontri con lettori e lettrici in giro per l’Italia, l’arrivo della nipotina che vive negli Stati Uniti da aspettare, una cena con gli amici, il cinema, il teatro, i concerti e l’Opera. Adesso, dopo mesi di conteggio dei morti e dei contagi, dopo che ho passato – come tutti – quasi un anno a considerare gli altri esseri umani come portatori di rischio da tenere a distanza, come si fa a progettare la piccola felicità di un incontro? Come ci si può nutrire la vita con il nettare della curiosità?
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