La pandemia che ancora imperversa nel mondo ha profondamente inciso su di noi, facendoci cambiare stili di vita e abitudini. Ma mentre ci interroghiamo sulle sue ripercussioni, nasce la consapevolezza che questo è il momento giusto per mettere a punto una strategia per ripartire. Le premesse positive ci sono, le abbiamo individuate. Sfruttiamole al meglio
Il 2020 è stato un anno che nessuno dimenticherà, perché le conseguenze della pandemia, che non ci siamo ancora lasciati alle spalle, avranno ripercussioni lunghe e in tutti i campi delle nostre vite. È innegabile come l’esperienza di un virus che si è diffuso a livello globale ci abbia cambiato: il Covid-19 ha messo in luce le nostre fragilità individuali e collettive, ma proprio per questo ci ha dato l’opportunità di ripensare a modelli e stili di vita più inclusivi, dove i servizi essenziali come sanità, istruzione e ricerca siano messi al primo posto negli investimenti di un Paese evoluto, e dove i modelli produttivi e di consumo debbano forse essere guardati con maggiore attenzione e rispetto per il pianeta.
Il lockdown applicato in tanti Paesi, fra i quali l’Italia, ci ha dato la misura di quanto l’impatto dell’uomo e delle sue attività contribuisca a modificare l’ambiente, e ha messo in discussione sistemi economici, politici e sociali che finora si ritenevano consolidati. Eppure, questi mesi ci hanno insegnato anche che dalle catastrofi si può imparare, per ripartire con più consapevolezza. Se è vero che la crisi economica già in atto è stata aggravata dalla pandemia, c’è da considerare che in alcuni settori è stato possibile reinventarsi, grazie alle nuove tecnologie, come per l’istruzione, dove la rete non potrà mai sostituire una scuola, ma ha comunque aiutato ad avere una didattica alternativa di emergenza. I social media e le piattaforme di connessione hanno aperto finestre di dialogo a distanza, nella riduzione o addirittura nell’assenza degli spostamenti fisici, e permesso di mantenersi in contatto con i propri cari, di conoscere altre realtà o ripensare attività che prima si facevano in presenza e che si sono riadattate in modalità “da remoto”, dai corsi di lingue, di ginnastica, di cucina, fino alle presentazioni di libri.
Anche la solidarietà, con l’aumento dei volontari scesi in campo per aiutare le persone più fragili, ha mostrato il lato umano di tanti che non hanno interpretato il distanziamento come presa di distanza dai bisogni dell’altro. Perché la povertà è aumentata, inutile negarlo, ma è cresciuta anche l’attenzione e la voglia di rendersi utili nei confronti di chi è stato messo davvero a dura prova, economicamente o per problemi di salute.
«Molti hanno usato la metafora della guerra, che può sembrare eccessiva ma forse è comprensibile – dice a 50&Più Vanni Codeluppi, sociologo e professore ordinario di Sociologia dei media all’Università Iulm di Milano -, perché questa pandemia è stata uno choc per la società e l’economia paragonabile ai grandi eventi, ai conflitti, ai terremoti, alle catastrofi naturali che sconvolgono la vita delle persone. Purtroppo nella storia si ripetono eventi di questo tipo, ma proprio la storia ci insegna che le società che ne subiscono le conseguenze si riprendono progressivamente, ed è a questa lezione che dobbiamo guardare. Pensiamo alla Seconda Guerra Mondiale: pian piano gli italiani hanno avviato la ricostruzione e sono entrati in una fase di benessere; credo che anche questa volta succederà la stessa cosa».
Il suo ultimo libro Come la pandemia ci ha cambiato, edito da Carocci, è uscito la scorsa estate, dopo la prima fase dell’emergenza Covid. Nella sua analisi ha rilevato cambiamenti in positivo che hanno interessato la vita delle persone?
La pandemia ci ha sicuramente costretti ad essere più digitali, a usare di più le nuove tecnologie. Pensiamo al mondo del lavoro: è cresciuto il numero di persone che lavorano da casa, e l’Italia è un Paese storicamente arretrato da questo punto di vista, se paragonato ad altri Paesi avanzati. Questo fenomeno catastrofico ci ha portati a lavorare di più online, ma anche ad acquistare tramite la rete e persino frequentare altre persone attraverso questi mezzi.
Sono cambiamenti destinati a durare?
C’è stato un impulso che probabilmente continuerà a dare i suoi effetti, anche se quando torneremo alla normalità credo che l’uso del digitale si ridimensionerà nuovamente, ma di sicuro resteremo a livelli superiori rispetto alla situazione precedente la pandemia. Questi cambiamenti producono vantaggi a vari livelli: economici e ambientali perché si riduce l’inquinamento, e sociali perché una maggiore flessibilità sul lavoro permette una differente gestione della propria giornata.
Ci sono state variazioni nei consumi?
Già da tempo le persone erano diventate più consapevoli sui consumi e sui comportamenti virtuosi in relazione alla sensibilità ambientale: pensiamo all’enorme crescita della raccolta differenziata in tutte le città. Quello del rapporto con l’ambiente è un trend di lungo periodo che vuol dire anche consapevolezza dell’impatto sulla salute, di ciò che si compra. Le variazioni più legate all’emergenza di oggi sono legate ai consumi di tipo ludico, perché la drammatizzazione della realtà in cui viviamo ci ha distratti, come consumatori, da beni considerati non essenziali. Penso ai settori dell’abbigliamento e del lusso, che maggiormente hanno risentito di questa fase. Ad aumentare sono stati, invece, i consumi di evasione, legati al mondo mediatico, come le piattaforme televisive, i giochi online praticabili da casa, che consentono un distacco dalla realtà.
Si è riscoperta una qualità del tempo passato in famiglia?
Questo è un altro effetto positivo: sappiamo che una delle caratteristiche della nostra vita contemporanea è la velocità temporale. Negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione dei tempi di vita e, quindi, la necessità di dover improvvisamente bloccare il tempo, sospendere questo costante dinamismo ha posto alle persone il bisogno di coltivare meglio la propria storia umana e le dimensioni che normalmente vengono trascurate, ossia quelle relazionali e interiori. Avere il tempo di riflettere e riorganizzare la nostra vita, ripensare a noi stessi e ai nostri cari, credo sia salutare, perché rappresenta una specie di oasi nella vita frenetica che normalmente abbiamo condotto in questi anni.
Come vede questa “seconda ondata”?
È chiaro che nel tempo gli atteggiamenti delle persone cambiano. All’inizio erano un po’ disorientate, spaesate, hanno reagito emotivamente cercando forme simboliche di unione, attraverso i balconi, le canzoni; poi, pian piano, ci si è resi conto che eravamo in una situazione drammatica, finché non è arrivata l’estate che ha portato la grande illusione che fosse tutto finito. Purtroppo non era così, e quindi è arrivata la delusione. Le persone devono fare i conti con una situazione complicata e piena di problemi, e quindi sono varie e comprensibili le reazioni: c’è chi si è stancato e ha esaurito le risorse psicologiche, perché la novità è finita ma il fenomeno continua a manifestarsi con questo aspetto inquietante che ci costringe a fare i conti con la morte, che noi tendiamo continuamente a rimuovere. Anche se oggi abbiamo ancora in testa le immagini indelebili dei camion militari in fila a Bergamo. Nonostante tutto, c’è anche chi non accetta questa nuova dimensione, ed è un fenomeno che possiamo analizzare nel rapporto tra Stato centrale e Regioni, non solo in Italia ma anche negli altri Paesi, dove esiste un livello di autonomia delle realtà locali che non accolgono imposizioni dall’alto. Probabilmente è una tendenza generale che dipende anche dal rapporto sperimentato con il web, dove le persone sono libere di esprimersi, costruire e diffondere i propri contenuti, che è ben diverso dal ricevere passivamente dei messaggi, come nella fruizione televisiva. Oggi le persone sentono di contare ed è giusto che sia così, ma può diventare un problema quando è necessario che tutti si muovano allo stesso modo, nella gestione collettiva dell’emergenza.
© Riproduzione riservata