Anche da molto vecchi, la relazione con l’altro gioca un ruolo davvero importante. Una caratteristica stabile dell’essere umano che rappresenta sempre un momento oggettivo e positivo
La relazione tra le persone è una caratteristica stabile dell’essere umano. Gli attori della relazione possono variare in base a moltissime circostanze, prima di tutte la loro soggettività. Quello che non cambia è invece il rapporto, un’entità autonoma, che assume aspetti diversi, ma è sempre un momento oggettivo e positivo.
Tale realtà oggettiva ha un ruolo ad ogni età, è il fondamento degli “anni possibili”. Anche da molto vecchi, infatti, si conserva la possibilità di fruire di un rapporto; in alcune situazioni particolarmente delicate gioca un ruolo davvero importante. Occorre però comprenderne le diverse modalità di espressione. Di seguito, quindi, descrivo le circostanze in cui la realtà della relazione si può esprimere nelle molte situazioni della vita.
Secondo alcuni studiosi, ma soprattutto secondo un’esperienza diffusa, la relazione è di per se un atto di cura; ogni rapporto comporta infatti anche il farsi carico dell’altro, talvolta senza particolari responsabilità, ma solo attraverso contatti gentili; altre volte, invece, con responsabilità più o meno rilevanti per la crescita umana e il benessere dell’altro (ma spesso anche di chi è attore primario della cura).
Come si realizza la relazione nel tempo post-Covid? Il dolore di alcune situazioni, conseguenza del tempo difficile trascorso, ma anche più direttamente della malattia, come può essere lenito, se non attraverso la relazione? Non vi sono farmaci contro la solitudine attuale e quella vissuta durante la pandemia, che ha lasciato strascichi profondi; non vi sono ancora farmaci nemmeno per le conseguenze a lungo temine del Covid-19 (anche se si può sperare in qualche progresso in questo campo). In alcuni casi si parla di “foggy brain”, di cervello annebbiato, per descrivere la difficoltà di riprendere una vita normale; in queste circostanze, oltre all’intervento clinico, la relazione resta la risposta principale, una realtà oggettiva che aiuta la vita imponendosi rispetto alle difficoltà del singolo di guardare al mondo, alla vita stessa. Nell’anziano, in particolare, il cervello annebbiato può aggiungersi ad altre difficoltà di “leggere” l’esistenza; ancor di più, quindi, si avvantaggia di una relazione che lo collega con la vita, dandogli la possibilità di vedere anche se i suoi occhi sono annebbiati, la possibilità di udire anche se le sue orecchie sono in difficoltà: la relazione supera le diverse soggettività e sa sempre trovare una strada per entrare nella mente e nel cuore, per offrire l’indicazione verso un percorso di significato. Molti in questi tempi difficili hanno perso la fiducia nella relazione: troppa stanchezza, troppi abbandoni, troppa solitudine non voluta, imposta dalle circostanze. Per loro la vita non è più un momento di possibile libertà, ma una condizione di sofferenza senza sosta, che tende a comprimere gli spazi della vita. A loro è doveroso offrire sempre una relazione, qualsiasi ne sia l’accoglienza. L’esperienza insegna che davvero questa agisce indipendentemente dalle circostanze, è sempre positiva, lascia una traccia che nel tempo potrà permettere di costruire, talvolta casualmente, uno spunto di crescita, di vita.
La relazione all’interno della famiglia è un aspetto critico, perché troppo spesso corrosa da atteggiamenti di rivalsa e di insoddisfazione; invece è il primo luogo dove la relazione può esercitare effetti positivi, sia in senso orizzontale sia verticale, collegando gli anziani con le altre generazioni.
La relazione sul luogo del lavoro è un altro aspetto di rilevante interesse per la persona anziana, quando non ha cessato il proprio impiego. Il lavoro rappresenta una modalità indiscutibile per restare legati al grande fiume della vita: può essere quello del passato, oppure un nuovo impegno o un servizio volontaristico. Il lavoro permette la relazione con altri, lo scambio di informazioni e di conoscenze; è quindi sempre al centro di una rete relazionale, che rende “possibili” gli anni della vita. La relazione è una condizione essenziale anche quando il lavoro finisce; è un tempo che non deve essere caratterizzato da chiusure, delusioni, rinunce. La relazione è essenziale per combattere la tentazione di ritirarsi, di concentrarsi sul proprio interesse immediato, sul proprio corpo e i suoi immancabili momenti di crisi.
Infine, è necessario ricordare che la relazione diviene centrale nel rapporto di cura. Talvolta si crea un’atmosfera di difficoltà tra gli operatori e la persona sofferente; non deve però portare ad un pessimismo rinunciatario. Anzi, il rapporto di fiducia costruisce un ponte sul quale passano gli interventi clinici. La relazione nella cura non è un atto aggiuntivo, che arricchisce la cura, ma un momento irrinunciabile, strutturale per chi vuole raggiungere un risultato. La relazione non è un atteggiamento delle “anime buone”, ma l’unico strumento perché la tecnica possa sviluppare le sue potenzialità. La relazione in medicina ha un valore anche quando la persona non è pronta a coglierne il significato; si pensi a quante sono così dominate dal dolore fisico o psicologico da non essere più in grado di accettare una relazione, perché ritenuta un impegno inutile. Invece deve essere sempre costruita, perché mai è inutile, oggettivamente, prima ancora che soggettivamente.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulle demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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