Le storie dei suoi romanzi nascono da piccole vicende di paese e si intrecciano tra pettegolezzi e colpi di scena. Perché la vita di provincia, con i suoi caratteristici personaggi, sa essere un’incredibile fonte di ispirazione
Oltre tre milioni di libri venduti, prima che il nuovo romanzo, La gita in barchetta, arrivasse in cima alla classifica di vendita: Andrea Vitali, a 32 anni di distanza dal suo debutto con Il procuratore, è ancora premiato da un importante consenso di critica e successo di pubblico.
Siamo al libro numero 79, dall’elenco che riporta Wikipedia sotto la voce che la riguarda. Come ci si sente con una montagna di carta così pesante dietro le spalle?
Vecchi. Perché quasi ottanta libri sono un bel peso. Soprattutto si sente la responsabilità, volendo proseguire in questa attività, di non commettere errori, di non ripetere il già detto, di non riscrivere il già scritto, di andare sempre alla ricerca di nuove storie da raccontare, così da non deludere i lettori, che spesso mi hanno seguito fin qui. Perché, lo dico da lettore, uno scrittore che ti frega con un libro insufficiente è uno scrittore che poi lasci perdere. Questo è un po’ il sentimento che mi accompagna in questo periodo della mia vita.
Prima di fare lo scrittore, e poi anche per diversi anni mentre pubblicava romanzi, lei ha svolto la professione di medico condotto. Un ruolo significativo nei Paesi della nostra provincia, perché è per certi versi il parallelo laico del sacerdote nel ricevere confessioni. Cosa le è rimasto di queste confessioni, episodi o particolarità ascoltate dai pazienti?
Ho ricavato un archivio, per essere succinto. Prima che di storie, mi sono formato una sorta di vocabolario di tipi umani che poi, con un’aggiunta di fantasia, sono diventati i miei personaggi. Per 25 anni ho esercitato la medicina di base di una volta, quella che metteva di fronte al paziente, senza i computer, la burocrazia che affligge oggi i medici di base, una medicina fatta di ascolto. Perché interrogare il paziente e ascoltarne le risposte era il più importante strumento per arrivare a una definizione diagnostica della patologia, ove esistesse. C’erano anche i casi degli ipocondriaci che proponevano i sintomi più fantasiosi. Quindi entravo in contatto diretto, per dovere professionale, con una vasta fetta di umanità. Chiacchierando spesso e volentieri si andava oltre i confini della visita, arrivando a discorsi che non c’entravano nulla. In diversi casi ho raccolto spunti che sono diventati il seme per certi romanzi, per certi racconti.
Ne La gita in barchetta abbiamo subito un’ambientazione, con la pettegola del paese che si rivolge al medico, una data, il gennaio 1963, e probabilmente un morto. Tutto però è, come suo solito, molto lieve, una suspense appena accennata…
È il mio modo di raccontare, affrontare un certo tipo di narrazione che non prevede il crimine vero e proprio. Preferisco le atmosfere un po’ in bianco e nero della provincia, come la cinematografia e tantissimi autori italiani a cui ho fatto riferimento l’hanno raccontata. Mi sembra che affrontare con dignità e leggerezza sia la maniera migliore per raccontarla. Gli scheletri chiusi negli armadi, i segreti, i pettegolezzi fanno sorridere, anche se c’è di mezzo un morto, che in realtà non è morto. Non è il maresciallo a indagare, è la pettegola, che attraversa il villaggio sei-sette volte al giorno solo per uscire di casa.
Che valore ha l’ironia, sempre presente nei suoi romanzi, per lei?
Nel quotidiano è fondamentale. Nasce da lì e poi la dispiego nelle mie storie. È la stessa con la quale mi piace trattare me stesso e la vita. L’ironia nasce dall’autoironia. Prima devi essere autoironico, poi riesci a diventare ironico, perché altrimenti saresti solamente cattivo. Per fortuna, avevo cinque fratelli e ci siamo abituati a essere ironici l’uno con l’altro, a non elevarci, a non credere di aver fatto chissà che. Per cui questo tipo di tratto è entrato direttamente nella mia scrittura. Le dirò che io cerco di immedesimarmi nei personaggi minori più sbeffeggiati. Mi serve ad alimentare la necessità di essere autoironico, per poi sviluppare l’ironia come arma per la scrittura.
I suoi romanzi sono un continuo rincorrersi di piccoli colpi di scena. Un capitolo ti porta a voler leggere immediatamente l’altro, per sapere cosa può succedere, come la storia si dipana. Eppure, chi vive in città o nelle cinture delle metropoli è portato a pensare che in provincia non succeda mai nulla, la vita si srotoli tranquilla, in una perpetua routine, tanto che, quando la cronaca ne parla a livello nazionale, esplode la meraviglia di quasi tutti…
Questo è vero ma, come diceva Piero Chiara: “La vita nei piccoli paesi è come un fuoco che brucia sotto la cenere, basta soffiarla via che esso appare”. Sicuramente, se uno ci passa mezza giornata, può avere l’impressione che domini la monotonia. Bisogna viverci, affrontare la realtà sociale del luogo per capire. Tutto ciò che succede nel mondo succede anche qui. E talvolta è molto più evidente qui, perché il posto è piccolo e tutti sono più sotto la lente dell’osservazione altrui. Questa è la ragione per cui a me capita la possibilità di raccontare parecchie storie. Proprio perché da qui non mi sono mai mosso, ho la piccola presunzione di conoscere certe dinamiche, certe situazioni, più o meno vere. A me non interessa tanto la verità autentica, mi interessa anche il solo pettegolezzo, che abbia il sapore di verosimiglianza e che possa diventare il seme per sviluppare una storia.
© Riproduzione riservata