«Quando si sta male, dopo una grande crisi, è possibile essere migliori». Sono parole che infondono speranza, quelle di Andrea Vianello, conduttore e giornalista, volto noto della Tv. Lo raggiungiamo per parlare del suo libro Ogni parola che sapevo (Mondadori), mentre il nostro Paese è alle prese con la pandemia da Coronavirus. «È il momento della responsabilità – ci dice -, quello in cui le parole vanno ponderate». E sono appunto le parole al centro del libro, le stesse che lui ha perso a seguito di un ictus e poi faticosamente riconquistate. Parole smarrite, o meglio chiare e nette nella sua testa ma ingarbugliate una volta pronunciate. Incomprensibili. Un danno provocato da un’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide. «Oggi – scrive – dei tumori si parla senza vergogna e per fortuna sono sempre meno mali incurabili; dell’ictus, invece, si parla poco, con orrore».
Perché parlare poco di ictus?
Per due motivi e, in tutti e due i casi, è per paura. Paura di un evento ignoto e che arriva all’improvviso. Non una malattia con un decorso, ma un fulmine, dall’alto. Chi non ce l’ha non sa bene di cosa stiamo parlando; noi che l’abbiamo vissuto, abbiamo paura di parlarne perché ci ha cambiato la vita lasciandoci danni più o meno forti. Per me, è stata la parola; ad altri, danni motori più o meno facili da vedere: c’è chi non riesce più a camminare, chi non può più usare un braccio, chi non riesce a mangiare bene. Tutti abbiamo avuto un danno al cervello che non si riporta indietro. Perciò, bisogna conviverci e molti di noi hanno paura. Paura a mostrarsi perché provano vergogna, col timore di essere compatiti e giudicati non più come si era prima.
Quando è capitato a te, qual è stata la tua reazione?
Anche io all’inizio non volevo vedere nessuno perché temevo che tutti sentissero quanto erano brutte le mie parole e si chiedessero che fine avesse fatto l’uomo della Tv che parlava così veloce e che ora non riusciva più neppure a dire acqua e bottiglia. Poi ho capito che mi sarebbe servito parlare con gli altri – per migliorare – e poi, soprattutto, che io ero lo stesso uomo di prima. La mia testa – per fortuna – era esattamente la stessa. E ho cercato di raccontare il mio percorso.
È così che è nato Ogni parola che sapevo. Perché lo hai scritto?
Perché spero di dare una mano a chi oggi ha paura di farsi vedere. Vorrei aiutare chi oggi pensa che tutto il mondo stia guardando quel braccio rigido mentre magari gli altri hanno voglia di sentire le loro parole, di guardare dietro i loro occhi o semplicemente di stare con loro. Sto cercando di lottare per questa cosa. Non solo per me.
Un compito affatto facile…
Tante persone mi hanno contattato chiedendo di parlarmi e mi dicono: “Grazie, mi sento più forte”. Mi dicono: “In te ho sentito un fratello che ha avuto la forza di raccontare. Chissenefrega, cammino male e allora?”.
La famiglia che ruolo ha avuto in ciò che hai vissuto?
È stata fondamentale. All’inizio ho fatto l’errore di non voler vedere i miei figli: temevo di mostrarmi con questo Esperanto incomprensibile che parlavo. Invece, complice il compleanno di mio figlio, li ho visti e ho capito di aver sbagliato. Ho aspettato troppo accrescendo la loro preoccupazione. I figli sono stati il motore più importante per dire “voglio vivere ancora”. E quando li ho rivisti e ho visto nei loro occhi il sollievo di vedere che il loro papà c’era ancora, ho realizzato che era meglio aprirsi al mondo.
Come sei ripartito?
Rivedendo gli amici – quando sono tornato dall’ospedale -, anche se ero un uomo molto diverso da vedere rispetto a come ero prima. Però, ho cercato di andare oltre tutte le mie titubanze dicendo a me stesso che era il modo per ripartire. Certo, ci ho dovuto mettere tutta la grinta possibile perché tornare a parlare è stato un percorso faticoso. Ancora oggi vado due tre volte a settimana a fare logopedia.
Cosa diresti alle famiglie che oggi vivono la condizione di un congiunto reduce da un ictus o non autosufficiente?
So quanto sia difficile per loro la vita fuori e dentro casa e quanto sia complicato avere la pazienza e la sensibilità di avere vicino una persona che ha bisogno di loro. Noi che abbiamo avuto un ictus lo sappiamo. In Italia, siamo in 70mila ad avere avuto l’afasia: è dura comprendere cosa stia succedendo nelle nostre teste se non riusciamo a parlare bene. Ma ciò non vuol dire che non abbiamo sentimenti, paura, intelligenza. Provate a capirlo – direi alle famiglie -, anche se fate fatica. Provate a comprendere che noi abbiamo le parole imprigionate in un carcere senza chiave. Aiutateci cercandole anche nei nostri occhi, quando non riusciamo a metterle nelle nostre bocche.
Il rapporto con tua moglie è cambiato dopo ciò che è accaduto?
Il nostro è un rapporto veramente importante di cui i nostri tre splendidi figli sono l’esempio vivente. Sicuramente la vita, le cose che succedono, cementano ancor di più il legame ma io ho trovato in mia moglie la donna forte che immaginavo. Sono grato alla forza che mi ha dato non solo per essermi stata vicina, ma per esser stata fredda nei momenti in cui serviva chiamando subito il 118, gestendo la paura nel momento che c’era la possibilità che io morissi, lo sconcerto di trovarmi senza parole. Lei ha portato tutto il peso sulle spalle: la gestione dei figli, il lavoro, le mie paure. È stata una donna molto forte, ma è una cosa che sapevo. Francesca, mia moglie, ha avuto un’adolescenza non facile: ha perso i genitori quando era ragazza. È rimasta da sola, senza fratelli: ha capito presto che la vita è difficile proprio nel momento in cui invece i ragazzi hanno bisogno di pensare che sarà tutto bello. Una sofferenza che le ha dato una grande voglia di vivere e una forza di affrontare i momenti difficili.
Senti di aver perso qualcosa? C’è qualcosa di cui ti vorresti reimpossessare?
Non ti dico che vorrei tornare spensierato perché mi sembra difficile. Mi piacerebbe tornare in piena attività lavorativa, cosa che sono pronto a fare, ma tutto dipenderà anche dalle occasioni che si presenteranno. Più che altro vorrei che tutto ciò che mi è successo mi desse una maggiore sensibilità rispetto al lavoro, alle persone con cui si lavora, alle emozioni che il nostro lavoro può infondere. Come col libro – in cui ho buttato fuori un pezzo di me che non avevo mai avuto la forza di buttare fuori – così vorrei riprendere il mio lavoro con questa nuova forza sensibile. Vorrei che questa sensibilità – che in fondo ho sempre avuto, ma che ho affinato per cause di forza maggiore – potesse essere la cifra narrativa.
Sensibilità e dunque empatia?
La Tv, la radio, i giornali: tutti dovremmo essere empatici anche per raccontare la storia più fredda del mondo, una decisione economica. Il nostro lavoro è essere empatici, anche nel dare le notizie. Dobbiamo ricordarcelo. Io ho fatto il giornalista perché volevo dare notizie, ma anche raccontare le storie. Adesso lo sento in modo diverso, più profondo. I giornalisti sono degli interpreti della società: se perdiamo questa prerogativa, possiamo essere i più bravi a dare le notizie, ma non le raccontiamo nel modo giusto. Siamo dei media che non devono dimenticare il valore della sensibilità e della responsabilità. Dobbiamo capire ciò che avviene, capire qual è la lezione, raccontarla nella sua essenza dicendo la verità perché sia utile per tutti.
Come in un buco nero
La vicenda che Andrea Vianello si è deciso a raccontare è la storia di un ictus, del suo ictus. Un racconto profondo e quasi fotografico.
Ecco un estratto: «Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati.“Che succede? Che succede?”, mi chiede. La mia risposta è chiara: “Megpdeiigrhiaa!”, le dico concitato, “mrlaiofoourhdka uhfe giumhu”. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. (…) non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati».
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