Abbiamo intervistato uno dei massimi scienziati italiani, il professor Andrea Rinaldo, vincitore del Nobel dell’Acqua 2023. «Chiederci cosa possiamo fare, come possiamo immaginare il futuro, avendo a che fare con eventi calamitosi sempre più intensi, dovuti alla progressiva accelerazione del cambiamento climatico causato dall’uomo, non è più procrastinabile».
Si chiama Stockholm Water Prize ed è considerato il Nobel dell’Acqua. È assegnato annualmente dal SIWI, l’Istituto Internazionale dell’Acqua di Stoccolma, uno dei più prestigiosi enti mondiali in fatto di governance dell’acqua, servizi igienico-sanitari e gestione delle risorse idriche, in collaborazione con l’Accademia reale svedese delle scienze. Viene porto con una cerimonia fastosa, simile a quella per l’onorificenza più importante del mondo, dal re di Svezia, che è il patrono ufficiale del premio. Nel 2023, per la prima volta dalla sua creazione, è stato assegnato a un italiano, il professor Andrea Rinaldo, ordinario di Costruzioni idrauliche all’Università di Padova e direttore del Laboratorio di Ecoidrologia dell’École Politechnique Fédérale di Losanna. Dal prossimo 21 marzo i maggiori studiosi mondiali, in veste di nominator, proporranno le candidature per il premio 2024.
Professor Rinaldo lei è stato premiato per i suoi studi sulle reti fluviali, che le rendono una chiave per capire come funziona la natura…
Le reti fluviali hanno la caratteristica fondamentale di aggregarsi, svilupparsi e stabilizzarsi secondo un meccanismo che è identico dalle più piccole alle più estese, dai ruscelli ai fiumi lunghi centinaia di chilometri. Inoltre il paesaggio fluviale offre “corridoi ecologici” per specie, popolazioni e agenti patogeni. Questo rende prevedibile la loro dinamica evolutiva, rendendo possibili interventi pianificati nel tempo.
Le reti fluviali consentono una valutazione del capitale naturale e dei servizi dell’ecosistema cogente, precisa, al di là delle valutazioni troppo labili, troppo elastiche, che hanno dato fuoco ai detrattori della valutazione del capitale naturale. Sia per affrontare l’inquinamento e la contaminazione dell’acqua, comprendendo come i soluti e gli agenti patogeni si muovono, sia per proteggere la biodiversità, arginando le specie invasive. L’acqua può essere salvifica, portare immensi benefici, ma può essere anche distruttrice, portare inquinamento e malattie. Per esempio il colera, che ho studiato a lungo, ha il patogeno, il vibrione del colera, che sopravvive in acqua.
Lei pensa che questa situazione di aumento costante della temperatura ci ponga di fronte a un cambiamento epocale oppure è solo un periodo troppo prolungato in cui si susseguono stagioni negative che però finirà per aprire una fase climatica più fredda, più favorevole?
Non si può dubitare del fatto che l’incremento delle temperature, legato all’aumento delle concentrazioni di gas serra, fa sì che da tempo abbiamo ogni anno l’anno più caldo mai registrato. Anche il 2023 è stato il più torrido di sempre. E che sia colpa nostra, degli uomini, è fuori discussione. L’osservazione, fatta peraltro piuttosto crudamente in genere e senza un vero know how, secondo cui i cambi climatici ci sono sempre stati, è vera, ma certamente dai primi del Settecento a oggi, cioè da quando abbiamo cominciato a misurare, e fino a dove riusciamo ad arrivare facendo delle simulazioni, è l’accelerazione, il tasso della rapidità di cambiamento che sgomenta. E questo è interamente colpa dell’uomo. Non è in discussione, discuterne ancora fa ridere.
Il Mediterraneo, come mare chiuso, ha un aumento della temperatura anche più alto rispetto a quello che c’è nel resto del pianeta…
Il Mediterraneo è un bel test, perché sappiamo che il suo livello crescerà con un ritmo identico a quello degli oceani. Inoltre è la culla di molti fenomeni, ad esempio dei medicane, questi nuovi uragani si producono con una temperatura più alta. Tenga presente che, quando parliamo di un metro di medio mare in più, parliamo tutto sommato di uno scenario bonario, di un aumento da 2,5 a 3,5 gradi ancora. Però non è detto sarà così e io non credo alla mitigazione.
Anzi se il famoso punto critico nell’incremento della fusione dei ghiacci in Groenlandia, per esempio, dovesse veramente essere superato non parleremmo di un metro di medio mare in più, bensì di sette metri in più. Certo nei tempi antichi, tra progressioni e regressioni marine, abbiamo visto anche 150 metri di variazione del livello dell’Adriatico, ma il problema è che oggi non possiamo, a differenza del passato, immaginare che l’ambiente costruito possa essere abbandonato ai capricci della natura. Dovrebbe essere conservato o perlomeno bisognerebbe decidere cosa fare. La risoluzione in radice di questi problemi richiede un accordo tra il nord e il sud globale che io vedo impossibile in specie di questi tempi. Non ci resterà che l’adattamento.
In Italia aumentano progressivamente i rischi idrogeologici. C’è una strategia possibile per contenerli?
Tra un po’ la politica non potrà ignorare questi effetti. In generale in passato l’intervallo fra gli eventi calamitosi era superiore al tempo che intercorre fra due elezioni diverse. Fra un po’ non succederà più, quindi vedrà che fra un po’ diventerà centrale nell’agenda dei politici. I grandi eventi intensi, cioè piene e siccità, fanno sì che vadano ripensate, ad esempio, la distribuzione dell’acqua oppure le agricolture possibili. E vanno, a mio giudizio, riviste in un’ottica di adattamento, non di mitigazione.
Supponiamo di non essere in grado di fermare il vero processo, cioè l’aumento di concentrazione di gas serra, che è un’ipotesi di lavoro dolorosa, ma assolutamente realistica. A quel punto dobbiamo trovare adattamento, che vuol dire chiederci cosa possiamo fare, come possiamo immaginare il futuro, avendo a che fare con eventi più intensi. Fra l’altro queste precipitazioni più violente, dovute a temperature atmosferiche più alte, sono particolarmente gravi per bacini medi e piccoli come i nostri. Più grandi sono i bacini meno questi effetti sono decisivi.
Noi come singoli cittadini, cosa possiamo fare?
Premere perché questi adattamenti vengano studiati, perché siano sempre centrali nelle agende della politica. Io non faccio il politico, faccio l’idrologo, e quello che posso dirle è che la cultura idrologica e idraulica italiana è di primo ordine nel mondo. Il talento e le conoscenze per poter studiare piani di adattamento che facciano sì che sia un ente terzo e non il fiume a decidere dove erompere. Per risparmiare zone dove ci sono persone oppure animali che possono annegare, costruzioni e opere d’arte, verso aree deputate a questa espansione. Mentre invece certa ideologia, di lasciare spazio libero alle pianure alluvionali perché la natura si riprenda il suo, è infattibile, è quasi terroristica e non è pratica in alcun modo.
Pensavo più a un agire quotidiano, dato che sono necessari circa 3.000 litri d’acqua per soddisfare il fabbisogno alimentare di una persona per una giornata, c’è anche qualcosa da fare, oltre a migliorare le irrigazioni, la ricerca? Dovremmo cambiare dieta ad esempio?
Il nesso fra acqua, cibo e la popolazione è molto forte. Dobbiamo diventare sensibili alla necessità di cambiare i nostri stili di vita. In Italia dovremmo ripensare quali agricolture sono possibili, perché certe pratiche che erano consentite da una disponibilità d’acqua che domani non ci sarà più sono da rivedere. Prima lo facciamo meglio è. È anche una questione di civismo, c’è un’attenzione spasmodica al consumo, che certo va ridotta. Però i consumi urbani, potabili, che sono quelli iconici che vediamo, sono una frazione microscopica della quantità d’acqua che serve alla produzione di cibo. La produzione di cibo è sostanzialmente legata all’agricoltura, quello è il grande consumatore d’acqua. Non è fare la doccia breve o chiudere i rubinetti immediatamente a determinare. Dobbiamo farlo, è importante concettualmente, ma praticamente non è molto influente.
Oggi si calcola che circa 3 miliardi di persone vivono in una situazione di carenza d’acqua. Invece l’Agenda per lo sviluppo sostenibile dell’ONU ha come obiettivo di garantire l’acqua a tutti entro il 2030. È fattibile?
Di fronte a queste dichiarazioni ricordo che, nel 1975 alla prima conferenza della FAO sul World Food, Harry Kissinger, che era allora il Segretario di Stato americano, disse “entro dieci anni non ci sarà più un bambino al mondo che va a letto con la fame”. Secondo lei è successo? Non solo non è successo. Non solo sono aumentati i bambini che vanno a letto con la fame, ma sono aumentati quelli che hanno problemi di obesità. Sono le disuguaglianze il problema di questo pianeta.
È stato da poco ripubblicato un suo libro dal titolo emblematico: Il governo dell’acqua. Cos’è cambiato nei 15 anni trascorsi dalla prima edizione a oggi?
Veramente poco, tanto che Marsilio ha gentilmente voluto fare una seconda edizione, probabilmente per due ragioni. Un po’ perché il libro non è invecchiato dal punto di vista dei temi generali, che in parte riguardano Venezia, in parte riguardano il governo dell’acqua in generale. Parliamo di fiumi, di siccità, di una giusta distribuzione dell’acqua. Di una dimostrazione non immediata da fare, ma del tutto ragionevole: assumere che piene e siccità estremizzate siano due facce della stessa medaglia, del riscaldamento globale. E la rapidità del loro alternarsi è il segno dell’estremizzazione di quella che viene chiamata la tropicalizzazione del clima.
Le tesi su Venezia, che è un esempio paradigmatico e per me importante perché è la città in cui sono nato è cresciuto, sono attualissime e ci dicono che è il momento di riflettere su una nuova fase della conservazione, della salvaguardia e quant’altro. Certamente non si può lasciar fare la natura. Come è accaduto nel caso di Venezia in maniera clamorosa, mai è successo nei secoli che si lasciasse fare alla natura, all’evoluzione spontanea. Anche nel Trecento si sapeva che i lidi erano instabili e malcerti, che senza l’uomo sarebbero spariti. E con loro la laguna, la difesa militare, la salubrità dell’acqua, la tutela dalla malaria, le acque miste e la bellezza dei luoghi.
Ma il Mose ormai non salva Venezia per sempre?
No. Non è progettato per quello. Il Mose è progettato per proteggere Venezia dalle acque alte eccezionali. Un’opera di questo tipo ha una vita che mediamente è nell’ordine di 100 anni. Sta facendo benissimo il suo lavoro e naturalmente adesso dicono tutti che era necessario, quando a Venezia nessuno lo voleva. Come ho sempre detto, era un’opera senza alternative. La difesa dalle acque alte eccezionali non ha alcuna alternativa all’interruzione dello scambio fra il mare e la laguna, per tante ragioni.
Il Mose continua a fare la sua funzione e la farà anche con il metro di medio mare in più che ci aspettiamo per la fine di questo secolo. Quello che cambierebbe in maniera radicale è che, con le regole di ingaggio di oggi, il Mose dovrebbe essere chiuso 260 giorni all’anno con un metro di medio mare in più. Il che significa, e questo è un conto fatto seriamente, che, con 260 chiusure all’anno, la laguna diventerebbe uno stagno. Fetido, fra l’altro, perché Venezia non ha fognature e la città marcirebbe.
Far sopravvivere Venezia non deve essere far sopravvivere una quinta teatrale o un parco tematico, come sta diventando la città, ma una città compiuta, che sia ancora la culla di innovazione, innovazione tecnologica, innovazione politica, di arte, di un ambiente costruito che è una meraviglia che il mondo ammira. Il problema è che non sappiamo cosa fare. Che idea di Venezia e che idea di salvaguardia deve essere posta in essere è una cosa che non sappiamo dire e dobbiamo farlo al più presto perché ci sono voluti 60 anni, fra polemiche infinite di tutti i tipi, per un’opera che non aveva alternative e tutto sommato concettualmente facile come il Mose. Non possiamo aspettare altri 60 anni per decidere cosa fare, altrimenti restiamo senza città e senza laguna.
Lei è stato nazionale di rugby, ha vinto tre scudetti. Secondo lei, lo sport, oggi, è ancora un insegnamento di vita oppure è stato fagocitato dal sistema economico e spettacolare?
Posso dirle che l’introduzione del professionismo sportivo nel caso del rugby ha eliminato la violenza, che era veramente tremenda ai miei tempi. Non si dicano stupidaggini: il professionismo sportivo è una disciplina, è una parte della nostra società. Il gioco è migliorato enormemente con il professionismo. Io ricordo certe violenze gratuite spaventose quando giocavamo. Non ci sono più. Lo sa perché? Perché è migliorato l’uomo? È più buono l’uomo? No. Perché se vengono squalificati non prendono lo stipendio per quel periodo.
Questo miglioramento del gioco con il professionismo si riverbera anche nell’attività amatoriale e quella giovanile. Non si può congelare l’evoluzione biologica, l’evoluzione culturale e tutto quello che ci circonda. Bisogna prendere quello che di buono ha da dare, bisogna sorvegliare con attenzione ogni deriva, e quella commerciale non piace a nessuno.
Il rugby ha una grande qualità, a mio giudizio. Non è come altri sport, in cui certe furbizie, certe astuzie possono essere importanti. Nel rugby vince la squadra migliore. Nel rugby è drammatica la relazione tra il risultato sportivo e il lavoro che hai svolto, la qualità di come ti sei preparato per quell’evento. Uno è la logica conseguenza dell’altro. Esiste una preparazione migliore per chi vuole fare lo scienziato? Io credo di no. Ma forse sono un po’ fuorviato in questo.
(Foto apertura credit: siwi.org/press)
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