Franca Anchieri.
Ha lavorato come impiegata fino al pensionamento. Partecipa al concorso 50&Più per la terza volta; nel 2020 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Vercelli.
Tre ragazzi belli, educati e furbetti.
Erano nati nel periodo post-bellico, in una cittadina di fondovalle sovrastata da aspre montagne, divenuta protagonista di un eccezionale esperimento politico: la Repubblica partigiana dell’Ossola) che durò solo quaranta giorni ma anticipò di un anno la Costituente della Repubblica Italiana e ne fu ispiratrice. Vennero al mondo in scala (diciotto mesi separavano le rispettive nascite). Fu quindi doveroso per la loro giovane mamma abituarli ad essere responsabili di se stessi. Fu anche implicito che le due sorelle maggiori dovessero farsi carico del più piccolo, a volte un po’ refrattario alle imposizioni della “tata” di turno. Crescevano molto liberi ma condizionati sempre alla buona educazione, al garbo, alla gentilezza verso tutti e soprattutto al rispetto delle regole comuni, con la fortuna di appartenere ad una famiglia agiata e di non conoscere perciò gran parte delle privazioni e delle tristezze con le quali doveva fare i conti la maggior parte delle persone che in quel periodo tentava di scrollarsi di dosso le macerie materiali e morali lasciate dalla guerra. All’epoca dei fatti che voglio raccontare, l’urto del tempo che passava li stava sospingendo verso la pre-adolescenza già di per se’ motivo di forti mutamenti nel fisico e nella mentalità di ogni persona. Ma per loro il cambiamento più grande fu determinato da un evento del tutto inatteso: la nascita di un altro fratellino. Nel segmento di vita che avevano vissuto, alcune abitudini si erano piacevolmente consolidate, ma ora tutto veniva stravolto da un esserino capace solo di frignare, di pretendere silenzio, di occupare un suo spazio nella grande casa.
Era dicembre inoltrato e la città aspettava ancora la neve, che prendeva consistenza solo sulle cime più alte mentre la valle rimaneva grigia e spoglia. I ragazzi erano impazienti perché il primo giorno di neve era sempre di grande festa. Intanto non si andava a scuola per cui la giornata scivolava via nell’atmosfera di confusione e di tradizioni che il tempo aveva consolidato. La cuoca non aveva bisogno di istruzioni per predisporre il pranzo: potevano variare i componenti di accompagnamento, ma la polenta era d’obbligo in quel giorno. Così come sapeva che all’ora di merenda i ragazzi aspettavano la granita d’uovo: i gialli tuorli, lungamente e pazientemente amalgamati con lo zucchero, diventavano una morbida crema esaltata dall’aggiunta della neve raccolta, ancora immacolata e morbida, sul davanzale della finestra. E finalmente nevicò. Come per un nitido presagio, nuvole scure e compatte si erano appropriate del cielo già dal pomeriggio. Quando la prima neve arriva di notte, si intuisce la sua presenza ancora prima di aprire le persiane ed ammirare il candido spettacolo: i suoni si ovattano, la luce che filtra dalle imposte è più accesa, pare perfino di odorare un profumo sospeso, pulito e inconsistente. Ma dopo la neve, per i tre ragazzi arrivò anche la brutta notizia: a causa dello sconvolgimento portato in casa dall’arrivo del fratellino, la mamma aveva sentenziato che per quell’anno l’albero di Natale sarebbe stato FINTO! La cartoleria all’angolo della piazza avrebbe fornito tutto il necessario già predisposto, compresa una stucchevole coroncina di luci, per creare l’atmosfera natalizia. Quindi niente albero vero, niente profumo di resina, niente allestimento con le sferette sottili e fragili che passavano quasi un anno relegate in cantina per poi esibirsi discretamente, ogni volta come nuove. Ma soprattutto niente candeline di cera, accese una ad una prima del sontuoso pranzo di Natale…
Il complotto per risolvere il problema assorbì i ragazzi per giorni, poi la decisione: dovevano pensare loro a tutto. La mamma avrebbe sicuramente apprezzato l’impegno e sarebbe stata contenta. Dedicarono tutto un pomeriggio avaro di sole per salire sulle prime rampe della strada che lasciava indietro la città e accoglieva sul suo ciglio bellissime case adagiate su vasti giardini. E finalmente su quel percorso trovarono quello che cercavano: un piccolo abete con i folti aghi quasi d’argento, di dimensione giusta per essere prelevato e poi ospitato nell’angolo del grande salone. Mancavano però gli attrezzi necessari a rimuovere l’alberello. Per evitare di tornare a casa la sorella più grande ebbe la pensata di reperirli sul posto… Bussò allora al portoncino della villa più vicina, da cui si affacciò la domestica con uno sguardo impastato di fastidio e curiosità. Gentilmente la ragazza le chiese se poteva avere in prestito per poco tempo una sega e, dopo aver risposto a mille domande e ascoltato altrettante raccomandazioni, ottenne la chiave del capanno dietro la casa in cui avrebbe trovato quello che le poteva servire. Adesso si trattava di mettere insieme le forze per attuare il piano: scostare un poco la neve, scalzare il terreno intorno all’esile tronco ed affrontarne il taglio senza danneggiare i rami. Non fu facilissimo, ma alla fine ci riuscirono ed ebbero la soddisfazione di vedere il piccolo abete disteso, pronto per essere trasportato a valle. Ma era tardi, il cielo aveva deciso di spostare la sua luce altrove; purtroppo era ora di rientrare rimandando al giorno successivo la conclusione dell’impresa. Con diligenza rimisero gli attrezzi nel capanno e riportarono la chiave a chi gliela aveva affidata, ringraziando educatamente. Erano felici… sarebbero tornati con una fune e avrebbero fatto scivolare l’alberello sulla neve del ciglio della strada fino a casa, dove la mamma, condividendo infine il loro entusiasmo, avrebbe provveduto a farlo collocare degnamente. Le ore della mattina seguente sembrarono eterne e l’uscita da scuola fu liberatoria. Ritrovarono il loro alberello dove l’avevano lasciato, apparentemente nascosto dalla poca neve caduta nella notte. Lo scrollarono, gli legarono il tronco e cominciarono a farlo scivolare prudentemente e faticosamente fino a casa dove, inaspettatamente, trovarono il papà che li accolse con un’espressione di sorpresa divertita, raggomitolata negli occhi e sotto i baffoni neri. Anche loro erano stupiti dalla sua presenza a casa a quell’ora del giorno ma furono fieri di mostrare a lui per primo il loro trofeo. Poi tutto precipitò. Il papà fece una serrata inquisizione e fu presto evidente che l’alberello era stato inconsapevolmente “rubato” perché il terreno sul quale faceva bella mostra di sé era il giardino (senza recinzione) di proprietà di un suo stimato conoscente. Non solo: gli attrezzi usati erano stati, altrettanto inconsapevolmente, richiesti alla sua domestica…
Non so bene come sia finita l’avventura però vi posso assicurare che non è frutto di invenzione, ma del racconto che me ne ha fatto una cara amica, alla quale dedico con affetto questa narrazione.
Grazie Anna!