Franca Anchieri.
Ha lavorato come impiegata fino al pensionamento. Partecipa al concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Vercelli.
Ci fu un periodo della mia vita in cui mi piaceva ascoltare Minghi. Nelle sue canzoni le parole non sempre seguono metriche prestabilite e ogni tanto ne spunta una che colpisce perché ricercata, poco usata, ma appropriata: “si affastellano” per esempio…
Nel dizionario questo è il significato di affastellare: raccogliere e legare in fastelli / ammontare confusamente qualunque cosa. Allora trovo che sia proprio il termine giusto per definire il desiderio che ho di elaborare i miei pensieri, che ormai trovano un campo vastissimo da percorrere in solitudine e senza fretta.
Ma più per legarli in fastelli che per ammontarli confusamente.
Cominciamo dalla musica!
Quando le mie corde vocali godevano ancora della plasticità e della freschezza che una sana gioventù porta in dote a qualunque componente del nostro corpo, si cantavano le canzonette con le amiche, a squarciagola, con una complicità esuberante e contagiosa.
In silenzio, lavorando, si ascoltavano invece i brani d’opera, in un contesto del tutto particolare. Ora spiego come.
Era perentorio a casa mia che il tempo non venisse mai sprecato e le vacanze estive non godevano di alcuna sottrazione alla regola. Per cui mi veniva concesso di dedicare il mattino alle amiche e agli svaghi (dopo i compiti, naturalmente) ma nel pomeriggio c’era l’appuntamento con la signora Rosa, la sarta più prestigiosa del paese, che faceva miracoli con ago, filo e forbici.
La signora Rosa, con spirito altamente filantropico e d’intesa con le mamme, radunava noi ragazzine nel suo laboratorio, togliendoci dalla strada (non in quel senso, per carità) e ci insegnava l’arte del cucito. Le sono grata, veramente, per tutto quello che ci ha dato in quei pomeriggi e per la sua condiscendenza alle nostre chiacchiere e intemperanze. Ma le sono grata in modo particolare perché mi ha introdotto in un mondo che non conoscevo.
Ad una cert’ora, la Rosa saliva su uno sgabello per raggiungere ed accendere la grande radio che troneggiava su una mensola.
I primi giorni il mio stupore per quello che sentivo, fu veramente grande: non si ascoltavano canzonette ma brani di opere di cui lei, la Rosa, ci raccontava la trama, descriveva i personaggi e contestualizzava i testi.
Allora il nostro orizzonte ampliava i suoi confini: Maria Callas, Renata Tebaldi, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, venivano a farci compagnia, con i migliori direttori d’orchestra, e la radio (come fosse la parte più stretta di una clessidra) faceva il miracolo di comprimere il suono di tutti gli strumenti, rimandando nel nostro piccolo laboratorio la sintesi amplificata della perfetta coordinazione dei suoni e delle voci.
Ho letto di recente un commento di Mario Brunello: “Detesto la musica di sottofondo. Colpa di mia madre che metteva un quartetto di Beethoven e poi andava a lavare i piatti. Ed io, che mi dannavo a studiare il violoncello, impazzivo all’idea che tutta la mia fatica sarebbe stata un giorno sopraffatta da un rito così prosaico”.
Certo, dal punto di vista di un così grande violoncellista, il concetto non fa una piega. Ma perché privarsi del piacere di una musica di sottofondo? Perché riservare il compiacimento di apprezzare ciò che ci è gradito soltanto alle occasioni in cui l’ascolto riesce ad essere l’unica attività su cui si concentra la nostra mente?
Le colonne sonore dei film, musiche che a volte arrivano al lirismo, sono scritte apposta per impastarsi con le trame, aggiungere pennellate ed amplificare le sensazioni che i registi vogliono trasmetterci.
Il cinema…
Tempo fa ho trovato da un rigattiere una fila di quattro seggiole di un vecchio cinema, me ne sono innamorata e me le sono portate a casa.
Rigide, di legno lucido, con la seduta basculante, riacquistano tutta la loro personalità quando qualcuno, con nostalgica sorpresa, le pone al centro dell’attenzione ricordandone il vissuto.
Guardando quelle seggiole mi torna in mente un “Dottor Zivago” visto in piedi (all’epoca si vendevano biglietti oltre la capienza dei posti a sedere) in una cortina di fumo di sigarette mal tollerata. Per fortuna era estate e non c’era anche il fardello dei cappotti da sostenere mentre la colonna vertebrale affidava ora ad una, ora all’altra gamba il gravoso compito di reggere le due ore di supplizio e metteva in atto una ginnastica di spinte gentili per guadagnare centimetri.
Quando invece si riusciva a trovare posto, c’era da fare i conti con la possibilità di ottenerne uno che consentisse una buona visuale. E questo non era sempre facile perché, come a teatro, la mancanza di pendenza del pavimento livellava tutti e riservava naturalmente il privilegio alle persone di alta statura…
Ma l’emozione era comunque grande. Pari a quella che si può provare oggi, con poltrone ampie, anatomiche e digradanti che eliminano ogni ostacolo alla visuale e con suoni in stereofonia che portano lo spettatore a sentirsi al centro delle scene. Adesso solo l’invadente profumo dei popcorn del vicino e lo scricchiolio di quei batuffoli sotto i suoi denti può disturbare quella concentrazione che consenta al film di penetrare nella nostra mente, nella quale farsi spazio e mettersi comodo.
E l’impegno si accentua quando la visione del film segue la lettura del libro da cui è stato tratto, per la verifica di quanto la nostra immaginazione sia stata complice del regista e dello sceneggiatore, nel delineare i profili dei personaggi o l’ambientazione della storia narrata.
I libri…
Un recente cambio di casa con conseguente ridimensionamento degli spazi, mi ha costretto alla rinuncia di parte dei libri che avevo negli anni accumulato.
Con loro, negli scatoloni che li contenevano, se n’è andato un pezzetto del mio cuore con una sorta di affaticamento emozionale che ha accompagnato ognuno degli scrittori con le sue storie ed i suoi personaggi. Mi sono appassionata alla lettura già da molto piccola. La prima Comunione allora si faceva nell’anno della prima elementare quando la sconosciutezza del saper leggere era pari a quella del saper vivere. Ma fu proprio un meraviglioso libro di favole, che mi regalarono in quell’occasione, ad aiutarmi a raggiungere il traguardo che la maestra, con collaudata e paziente esperienza, si prefiggeva fin dall’inizio della scuola: farmi “vedere” la parola, nel miscuglio misterioso di vocali e consonanti che faticosamente tentavo di collegare sillabando. Dopo, lentamente, tutto fu facile e la passione prese la forma di un veliero, esigente di navigare nel mare degli argomenti più disparati, senza deriva e senza mete precise. Amo leggere i buoni scrittori italiani; con loro ho la certezza che nessun filtro di traduzione abbia alterato o sgualcito la vera intenzione espressiva dell’autore. I libri sono stati una compagnia importante soprattutto quando gli eventi mi hanno costretta a immobilità forzate (fratture, interventi chirurgici, malattie…) per smorzare e superare quel sottile intimo fastidio che si prova quando ci si sente responsabili di aver permesso alla vita di aggredirci e provocare il nostro decadimento.
Mia figlia dice che le piacciono le sfide perché le consentono di tirare fuori il meglio di se stessa, per poi riconoscere, guardandosi indietro, un lungo sentiero su cui si sono depositati piccoli e grandi frammenti scintillanti delle sue conquiste. Del mio sentiero non vedo più l’origine e i più lontani frammenti scintillanti hanno assunto un aspetto più opaco e vaporoso, lasciandomi però la soddisfazione di aver dato loro vita. Così, adesso, in qualche modo ho tentato di “ammontare” e “legare in fastelli” i miei pensieri, attingendo in larga parte dal passato e tralasciando volutamente ogni accenno a quello che potrebbe riguardare il futuro.
Il mio futuro è il presente che cerco di vivere cogliendo con serenità sia i momenti belli, sia quelli che tali non sono.