Ho ricevuto una lettera che mi ha fatto riflettere, a lungo, e amaramente; non vi cito il nome della lettrice che mi ha scritto perché non vuole essere in alcun modo menzionata o nominata. La chiameremo, perciò, con un nome di fantasia: vi piace Graziella? Si usava molto negli anni Sessanta del secolo scorso. C’era anche una bicicletta che si chiamava così.
Dunque Graziella ha sessantanove anni, è vedova da quando ne aveva sessanta e, da pochi mesi, ha intrecciato una relazione affettuosa (lei la definisce con questo aggettivo, interpretatelo come volete) con un signore che abita nel palazzo di fronte al suo. Si ritrovavano sempre nello stesso bar e chiedevano lo stesso caffè: decaffeinato lungo, macchiato caldo. Un bel giorno, è arrivato un barman nuovo che non capiva bene la lingua e ha sbagliato ad eseguire l’ordinazione. A tutti e due. Graziella si è messa a ridere di gusto e il signore, invece di arrabbiarsi, ha riso con lei.
La faccio breve, hanno incominciato a vedersi. E non soltanto al bar. Due volte al cinema, un concerto, una passeggiata, lo zoo. Il primo bacio se lo sono dato davanti alla gabbia delle scimmie. E di nuovo hanno riso. La loro amicizia contiene molta allegria, chiacchiere, cenette. Una notte soltanto hanno dormito insieme, carezzandosi prima di prendere sonno. Graziella era felice, e anche l’uomo, sembrava godere di quella intimità senza urgenze carnali, più alla ricerca della compagnia e della tenerezza che di sesso. Sarebbe il racconto di una seconda primavera felice, se non ci fossero di mezzo i figli. Sì, un maschio di 41 anni e una femmina di 39, entrambi di Graziella. Due brave persone, già mature, che, come bambinetti gelosi, non hanno accettato che la loro madre avesse una relazione.
«Fregatene, Graziella, mandali al diavolo, non si meritano niente, anzi, si meritano una vecchiaia solitaria e infelice». Le ho scritto così, arrabbiata e partecipe, condividendo il suo dispiacere. Poi ho incominciato a riflettere: i figli di Graziella non le vogliono bene? Lo negherebbero a gran voce, ne sono certa. Eppure non vogliono che sia felice, che invecchiare le sia lieve, che trovi riparo in un abbraccio silenzioso alla paura della solitudine, comune a tante persone della sua età.
Perché? Che cosa toglie ad un figlio di 40 anni il fatto che sua madre abbia una relazione? Non è mica più un bambino bisognoso di attenzione, di cura e di sostegno! È nella “Fase Forte” della vita umana, con che coraggio minaccia la ritrovata serenità di una donna sola arrivata alla soglia dei 70 anni? E non è soltanto il figlio maschio, anche la femmina si è espressa: «Mamma – ha detto -, non renderti ridicola». Ecco: me lo spiegate perché l’eros, inteso nel senso più ampio, fuori dall’età canonica (ma qual è l’età canonica per l’amore?) è considerato nella migliore delle ipotesi buffo, nella peggiore degno di scherno? Che cosa abbiamo di diverso dalle altre donne noi che attraversiamo, ciascuna con il suo passo, il terzo tempo? Il nuovo amico di Graziella ha 78 anni: se si fosse ripiantato i capelli in testa, se si ammazzasse di allenamenti, se si fosse arricchito con qualsiasi mezzo, se sbandierasse i suoi soldi e il suo potere per conquistarsi una donna di 30 anni non sarebbe più ridicolo? Che cosa vi spinge allo scherno, figli scellerati? Forse immaginare due corpi fragili e imperfetti stesi uno accanto all’altro senza la difesa dei vestiti, due anime capaci di scambiare qualcosa di misterioso e sottile, molto più profondo della reciproca ammirazione che rende stupidamente orgogliosi i corpi giovani con le loro carni sode?
Scrivetemi, parliamone.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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