Secondo ricercatori cinesi i cambiamenti cerebrali dovuti all’Alzheimer avvengono molti anni prima della perdita della memoria.
Gli studi sull’Alzheimer proseguono senza sosta. Le ultime scoperte nella ricerca da tempo si concentrano sulle varizioni cerebrali antecedenti la scoperta della malattia da parte dei pazienti.
L’ultimo grande studio condotto su volontari in Cina prova che i processi biologici alla base del declino mentale iniziano anche 18 anni prima che le persone notino i primi segnali. I risultati pubblicati sul New England Journal of Medicine confermano l’importanza dei biomarcatori per migliorare l’accuratezza nella diagnosi della malattia e nella terapia personalizzata.
Lo studio cinese
In realtà era già noto che nelle rare forme ereditarie della malattia – quelle che colpiscono i giovani – il processo di cambiamento del cervello si innesta una ventina d’anni prima della sintomatologia. L’importanza dello studio cinese invece nasce dalla sua ampiezza, ovvero dall’aver seguito migliaia di volontari per due decadi, dal 2000 al 2020.
Il campione, uomini e donne con un’età media di 61 anni volontari del progetto “China Cognition and Aging Study”, è stato sottoposto ad esami. Fra questi, il test del liquido cerebrospinale e, a intervalli di 2-3 anni, scansioni cerebrali per valutare i parametri cognitivi nel tempo. Gli studiosi hanno poi confrontato 648 partecipanti con diagnosi di Alzheimer con altri 648 che negli anni avevano mantenute inalterate le loro funzioni cognitive.
I cambiamenti nel cervello
Il team di scienziati del Centro di innovazione per i disturbi neurologici dell’Ospedale Xuanwu, in collaborazione con altre realtà accademiche, ha così reportato la cronologia dei cambiamenti cerebrali nel corso del tempo. Nei pazienti che avrebbero sviluppato l’Alzheimer, infatti, la ricerca rivelava accumuli tossici di beta amiloide nel liquido cerebrospinale (responsabile delle alterazioni neurologiche) già 18 anni prima della diagnosi. Da 11 anni prima si assisteva alla progressiva alterazione e poi alla degenerazione della proteina tau. A 9 nove anni dalla diagnosi comparivano i primi segnali del danno neuronale e a 8 l’atrofia dell’ippocampo. Infine, a 6, le differenze nei cervelli dei due gruppi diventavano evidenti con i comuni test cognitivi.
L’importanza dei biomarcatori plasmatici
I risultati sembrano invalidare le attuali procedure di somministrazione dei farmaci monoclonali praticate per ora solo negli Stati Uniti, prescritte al momento della scoperta iniziale della malattia. Se infatti l’inizio di accumulo di proteine tossiche nel cervello inizia molti anni prima, la tempistica di somministrazione rischia di essere errata e deve essere riveduta.
Anche se uno studio come questo non sarebbe ammesso nei Paesi occidentali per la sua invasività (basti pensare al prelievo sistematico del liquido cerebrale) la questione richiede ulteriori approfondimenti. Uno strumento utile potrebbero rivelarsi i biomarcatori plasmatici, in fase di valtazione clinica. Sono esami del sangue non invasivi in grado di misurare i livelli anomali della proteina beta amiloide e il danneggiamento della proteina tau per individuare le persone a rischio prima che sviluppino i sintomi della malattia.
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