La ricerca – talvolta persino la creazione – di un “nemico”, o colore diverso, viene spesso utilizzata per generare coesione in un gruppo sociale povero o disagiato. Con conseguenze disastrose che hanno segnato molte pagine di Storia
Daryl Davis è un musicista e compositore afroamericano. Nel 1983 stava suonando in un bar frequentato soprattutto da bianchi, nel Maryland, quando a un certo punto gli si avvicinò un tizio, un bianco. Costui gli disse che era la prima volta che gli capitava di sentire un nero suonare bene come Jerry Lee Lewis, un musicista bianco della Louisiana, fra i massimi esponenti del rock and roll e del rockabilly. Davis rispose che in realtà Jerry Lee aveva imparato a suonare dai pianisti blues neri, e che era un suo amico. Il bianco era scettico, ma i due continuarono a chiacchierare, bevvero insieme e alla fine della serata il bianco ammise di essere un membro del Ku Klux Klan, la terribile associazione razzista nordamericana.
Fu quell’incontro che tornò in mente a Davis, anni dopo, quando decise di scrivere un libro sul Ku Klux Klan. Spiegandone le ragioni disse di aver avuto in testa una domanda sin dall’età di dieci anni: «Per quale motivo mi odi se non mi conosci e non sai nulla di me?». Quello che Davis non sapeva è che l’odio svolge un ruolo spesso fondamentale nella definizione dell’identità di un gruppo, di una società o di un’intera nazione. La percezione – o la creazione – di un nemico esterno serve a rafforzare la coesione di una società soprattutto in situazioni di crisi, di povertà materiale o culturale, di sottosviluppo sociale.
Proprio la seconda fondazione del Ku Klux Klan (l’associazione criminale nella sua prima versione era stata sgominata negli anni Settanta del diciannovesimo secolo), avvenuta nel 1915 ad opera di tale Simmons, sfruttò la convinzione, diffusa tra molti bianchi poveri, che i loro problemi economici dipendessero dai neri, dai banchieri ebrei, da altre minoranze. Appena il caso di evidenziare l’analogia fra quanto accadde poco dopo in Germania per effetto della propaganda nazista. Per cominciare la sua ricerca, Davis decise di incontrare il Mago Imperiale – il capo supremo – del Ku Klux Klan in Maryland, Roger Kelly. Fece chiamare dalla sua segretaria che chiese un appuntamento dicendo la verità, e cioè che Davis voleva parlargli perché intendeva scrivere un libro sul Klan; semplicemente omise riferimenti al colore della pelle, né Kelly fece domande. Quando il Mago Imperiale arrivò all’incontro vi furono sorpresa e momenti di tensione, ma poi i due cominciarono a parlare. E continuarono anche dopo quel primo incontro: diventarono amici, e addirittura Kelly, il Mago Imperiale del Klan, sostenitore della superiorità della razza bianca, chiese a Davis, il musicista nero che voleva capire perché gli uomini del Klan lo odiassero, di fare da padrino a sua figlia. Infine, Kelly abbandonò il Klan e, in un gesto simbolico, regalò all’amico la sua sinistra tunica di Mago Imperiale.
Davis trovò il modo di parlare con numerosi altri membri del Ku Klux Klan. Decine e decine, dopo gli incontri e le conversazioni, abbandonarono l’associazione razzista. Davis raccontò la sua storia in un libro, Klan-Destine Relationships: A Black Man’s Odyssey in the Ku Klux Klan. L’idea di fondo del libro è semplice: tutti i membri del Klan incontrati da Davis erano imbottiti di pregiudizi assurdi e spesso ridicoli. Parlare consentiva loro di vedere, all’improvviso, la vera natura di quei pregiudizi e, spesso, di sbarazzarsene. Davis racconta vari episodi rivelatori. Per esempio: una volta un membro del Klan gli disse, serio e convinto, che tutti i neri avrebbero uno specifico gene che li renderebbe inclini alla violenza. L’uomo affermava che vi fossero studi sulla popolazione afroamericana ed evidenze scientifiche di tale inclinazione. Però non era in grado di indicarle. Davis non fece obiezioni. Replicò solo che anche i bianchi hanno uno specifico gene che li rende tutti potenziali serial killer.
«Anche tu hai il gene. È latente, ma potrebbe venir fuori da un momento all’altro. È una cosa tipica dei bianchi. Del resto, saresti capace di indicare tre serial killer di pelle nera?».
«Ma questa è una stupidaggine», rispose l’uomo in evidente difficoltà, incapace di indicare serial killer non bianchi.
Era una stupidaggine, sì. Una generalizzazione stupida e infondata, concluse Davis, lasciando il concetto sospeso.
L’uomo del Klan non trovò nulla da replicare. Per la prima volta parve pensare alla possibilità di un punto di vista diverso da quello in cui aveva creduto senza incertezza per tanto tempo. Per la prima volta il dubbio si fece strada nel groviglio di pregiudizi su cui aveva impostato la sua esistenza e il suo senso di sé.
La straordinaria esperienza di Davis gli consentì di toccare con mano, nella più improbabile delle situazioni (dialoghi di un uomo nero con bianchi razzisti), un concetto fondamentale: l’ignoranza alimenta la paura, la paura alimenta l’odio, l’odio alimenta la distruzione della convivenza e, in definitiva, del senso di umanità.
Un concetto ben chiaro a Nelson Mandela che lo enunciò in una frase indimenticabile: «Praticare l’odio è come bere un veleno nella speranza che a morirne sia il nostro nemico».
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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