Adele Loriga. Laureata in Pedagogia Scienze Sociali, ha svolto il suo lavoro presso le case di riposo per anziani e famiglie multiproblematiche. Si interessa di arte nel campo della letteratura e pittura. Ha partecipato a diversi concorsi ottenendo riconoscimenti regionali, nazionali e internazionali. Ha pubblicato diversi libri di poesia e narrativa ed è presente in antologie. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Sassari.
Il teatro possiede l’eco delle parole gridate, a volte mai dette, nebbia per chi non sa ascoltare. Avevo deciso di trascorrere parte della mia esistenza lì in un teatro pressoché abbandonato, srotolando la mia esistenza, recitando monologhi senza fine. Narravo me stessa indossando una maschera bianca, ne indossavo altre cento per poter vivere altre cento esistenze. Annientavo così la paura che genera oblio, il nulla che diventa gemma preziosa, mutamento dell’essere. Roccia eterna ancorata al destino all’origine del bene e del male. Si dice che Dio creò la materia dal nulla e, per non rimanere solo, plasmò esseri umani simili a lui, ritratto dell’eterno, proiettando se stesso dentro e fuori di noi. Venimmo alla luce nel segno della sua maestosità. Presto però perdemmo le ali, smarrendo la fiducia in Dio, in noi stessi e nella nostra bellezza al cospetto della nostra finitezza. Ferma sulla soglia del possibile, sto li a rimpiangere il giardino dove le arance godono del sole adulatore e le zagare non smettono mai di fiorire. Così nell’evasione da me stessa non conosco più rifugio vivendo e calcolando il mio tempo nella fede dell’immortalità. Il mio languore mi riporta all’infanzia, all’essere figlia per poco, nipote di mia zia, dispotica sempre. Ho studiato e vissuto in una casa accogliente, aspettando che zia partisse prestissimo al mattino ad insegnare in un paese lontano dalla nostra città. Aspettavo poi che rientrasse molto tardi al pomeriggio, stanca, muta, irascibile, consumando i suoi giorni e i miei. Desideravo un suo sguardo, una carezza, una parola per vincere la mia fuga verso la strada dell’annientamento. Ma sentirmi dire: “Studia, studia, altrimenti non sarai niente, nessuno”. Quelle parole annullavano la poca stima che avevo di me, risuonando nella mente e nel petto. Mi sentivo niente, colpevole però di ogni cosa che accadeva. Presto terminai gli studi, conseguii il diploma di maestra elementare come mia zia.
Mi chiamarono nello stesso paese dove lei insegnava, in un corso serale per studenti lavoratori. Apprezzai presto quei ragazzi allegri, orgogliosi delle loro fatiche, del loro sudore, ricchi di sogni, di danze e canti. Volevo essere bella per loro, essere apprezzata non soltanto per essere la loro insegnante, ma per il mio aspetto fisico. Mi dipingevo così le labbra e il viso di rosso in un modo pesante cupo, quasi volgare.
Presto mi invaghii di uno dei miei studenti, un giovane pastore. Aveva ripreso la scuola per capire meglio i poeti, che aveva sentito declamare dai nonni e dai poeti del paese. Appassionato di Dante, Petrarca, scoprì l’incanto dei versi di Neruda. Il suo interesse per la poesia lo portò ad avvicinarsi a me, chiedendomi come si potesse diventare davvero poeti. Mi confidò che leggere e scrivere lo facessero sentire leggero, vicino a Dio, accanto al cielo tanto da non sentirsi più inghiottito dal buio senza stelle nelle notti fredde, solitarie passate al pascolo col suo gregge. Le poesie di Neruda erano per me un pretesto perché potessimo incontrarci anche al di fuori della classe. Il mio viso d’avorio divenne fuoco acceso per un sentimento di cui provavo vergogna. Nell’aula cercavo di non guardare Ignazio, che non si accorse della mia inquietudine che avvitò la mia anima e il mio corpo. Sconfitta: così mi sentivo!
Il palcoscenico dell’Istituto mi vide protagonista di danze sfrenate e canti irriverenti per un pubblico che non esisteva. Il cuore si fermò ancora. L’efficacia del mio teatro e delle cento vite che mi regalava, mi facevano sentire immortale, ma ormai il mio non era più recitare, declamare, ma urlare per gridare la mia pena, la mia musica scordata. Mi portarono via in malo modo dalla scuola e dalla nostra casa senza amore. Stetti non so per quanto tempo in una casa di cura, e poi in altre. La discesa verso l’inferno iniziò, visite, esami, medici, infermieri, medicine, stanze bianche, finestre con inferriate, porte chiuse, cuore chiuso. Passeggiavo per la stanza muovendomi a fatica, sussurrando una litania dolce e struggente. Non mangiavo quasi più, cibandomi di un orizzonte lontanissimo che guardavo oltre l’orizzonte azzurrissimo. Una infermiera mi imboccò una prima volta e poi ancora altre. Era il suo sorriso che bevevo, che mangiavo. Accarezzandomi la fronte: “Dai Rosa, canta per me quella canzone”.
Qualcuno mi aveva “vista” in quella mia esistenza difficile, strana, diversa e diversa mi sentivo provando un sentimento d’amore per quella ragazza. “Devi rafforzare il tuo indebolimento Rosa, guarirai soltanto se ti vorrai un po’ di bene”. Mi porse l’acqua accarezzandomi i capelli ormai rigidi. Lentamente ripresi a mangiare. La ragione riprende se l’anima ritorna ad uno stato di grazia. La roccia eterna si sgretolò, diventando pietà per me stessa e per gli altri. Pensai a mia zia e capii la sua solitudine tanto simile alla mia. Mi fu chiaro il suo aggrapparsi a me, amandomi in un modo sbagliato. Si invecchia e invecchiare è ricordare, è energia che porta a vedere oltre l’infinito. Immobile con lo sguardo rivolto alla valle verde, soffice, l’aria mi riporta l’alito profumato di zagare e gelsomini. Il ricordo crea la fantasia e la fantasia conduce alla realtà. Siedo regale sulla sedia del mio mattino, guardando verso il mio teatro buio. Ignazio viene a trovarmi spesso, portandomi in dono dolci e libri di poesie. In uno di essi una dedica: “A una donna bella dalle labbra di rosa, dall’animo gentile. Una donna che mi ha insegnato ad amare il cielo anche nelle notti più buie, quando le stelle si nascondono e la solitudine è ancora di più solitudine”. Dio creò gli esseri umani, simili a lui, ritratto di sé stesso. Proiettò la sua luce dentro e fuori di noi. Vivo del suo splendore. Ho varcato la soglia del giardino delle arance, dove le zagare non smettono mai di fiorire e di profumare i pensieri. Il mio viso brilla.
Indosso gli orecchini di smeraldo, dono di mia zia, la maschera d’avorio e… canto nuove canzoni.
“Si, un giorno sarò talmente bella / da offuscare il sole / E la mia casa splenderà di pizzi gioiosi / tanto da stupire il cuore / L’ombra del monte griderà perdono / per i giorni andati / Balleranno sette ballerini / e sette ballerine / Il prato sorriderà portando / le labbra di spada a diventare fiore / … Il cerchio largo delle danze / mi vedrà regina ornata di oro e coralli”.