La cantante irlandese è morta lo scorso 26 luglio. Da “Nothing compares to you” alla solitudine: storia di un talento tormentato e dell’attimo che cattura una vita.
Nei ricordi a volte nebulosi dei miei anni di ragazzino, Sinead O’Connor emerge come un’immagine di bellezza nitida. La bellezza di un volto quasi senza corpo, i capelli tagliati cortissimi, i tratti angelici e gli occhi come due fanali. Grandissimi. Laceranti. Uno sguardo di Medusa che ti smuove, viene a prenderti dove sei e ti trascina nel suo gorgo.
Sinead O’Connor e il successo di “Nothing compares to you”
Nel 1990, a 23 anni, Sinead prende una canzone scritta qualche tempo prima da Prince, un pezzo soul pensato dal cantante di Minneapolis per il progetto parallelo dei Family, e lo trasforma in qualcosa di diverso. “Nothing compares to you” diventa un lamento struggente per un amore perduto e un clamoroso successo mondiale. Su una base musicale suggestiva e minimale, la voce di Sinead esprime tutta la sua bellezza. È piena, cristallina, con un vago tremolio, si rompe nel falsetto come in un singulto. La forza “assertiva” del rock si mescola con gli echi della sua Irlanda, con la musica popolare e i canti sacri, intonati come salmodie. C’è sofferenza vera nell’interpretazione, ed è il tocco che la promuove a qualcosa di unico, un’esperienza che non può lasciare indifferente chi ascolta.
Dal successo ai tormenti
“Nothing compares to you” diventa istantaneamente un inno e il manifesto della cantante, la fornace dove bruciano la sua energia e i suoi tormenti. Sinead sceglie di dedicarla alla madre scomparsa, che ha segnato la sua infanzia con la violenza e il disagio: il metro onnipresente delle sue mancanze e del suo bisogno di affetto. “Tutti i fiori che hai piantato nel giardino di casa”, dice il testo, “tutti sono morti quando sei andata via, mamma”.
Anche lei è un fiore che si spoglia: raggiunta improvvisamente la cima del successo, la perfezione dell’icona di creatività e bellezza, comincia pian piano a scendere, a guastarsi. Come se lanciasse un altro grido, una richiesta di attenzione, di aiuto, sempre più ingarbugliata e disperata. Quando ha gli occhi del mondo addosso sceglie di dire: guardate, c’è una persona dietro l’artista, un puzzle dietro la maschera, ho bisogno di verità. Litiga con Prince, strappa in diretta, nel famoso show americano Saturday Night Live, una foto di Papa Wojtyla per protestare contro la pedofilia nella Chiesa, compie gesti eclatanti, sopra le righe, si butta senza rete, si sposa quattro volte, si ritira e torna, più volte, intraprende un cammino di spiritualità sempre più evidente, anche nella sua traiettoria musicale, si converte all’Islam e cambia il suo nome in Shuhada’ Davitt.
La perdita del figlio e la scomparsa
Le “voci di dentro” continuano a tormentarla: ammette di soffrire di disturbo bipolare, si cura, ricade nelle dipendenze, annuncia il suicidio, smarrisce il bandolo della matassa e prova a riprenderlo, con sempre più difficoltà. Non trova quello di cui avrebbe bisogno: l’amore, un pigmalione, una madre. Dice che il canto è “il momento di maggiore solitudine”, ma nel canto continua a emanare luce, librata in una specie di stato di grazia ancora nelle ultime esibizioni, che risalgono al 2019.
La sua “ferita” contagia gli affetti più cari: nel gennaio del 2022 il figlio Shane è trovato morto dopo la fuga dall’ospedale psichiatrico in cui era ricoverato. È il colpo finale. Qualcosa si rompe definitivamente e Sinead precipita verso l’epilogo annunciato, l’ultimo addio della sua vita “piena di addii”, come lei stessa l’ha definita nell’autobiografia “Rememberings”. Ma niente può toccare la sua bellezza tutt’occhi, la sua immagine di grazia e fragilità, la voce chiara e tremula, potente e sussurrante, catturate per sempre in un momento e in una canzone.
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