In Italia oggi 2 milioni di over 75 dichiarano di sentirsi soli sempre o spesso; d’altra parte, vi è una quota del 20% degli anziani che dichiara di non avere nessuno da chiamare in caso di bisogno. Queste condizioni si vivono all’interno del problema più generale: secondo diverse rilevazioni, circa il 30% degli ultra sessantacinquenni italiani vive solo, una media non diversa da quella di altri paesi europei.
La solitudine è una condizione che porta a sofferenza del corpo e della mente: gli anziani soli sono più fragili. Tendono infatti a non prendersi cura della propria salute, per cui si ammalano più frequentemente, non seguono un adeguato regime alimentare (perché procurarsi un mangiare sano se non vi è occasione per condividerlo?), non fanno un’adeguata attività fisica perché non hanno motivi per uscire di casa (il guscio protettivo in cui si rifugiano rispetto alla città inospitale), non hanno contatti con altre persone e quindi tendono a polarizzare la propria attenzione solo su sé stessi, con l’aggravarsi nel tempo del proprio isolamento.
Di fronte a questa realtà, che purtroppo diventa sempre più drammatica a causa della crisi della famiglia, del prevalere diffuso della logica dell’“io” rispetto a quella del “noi”, della crisi dei tradizionali ambiti di aggregazione, come ad esempio, la Chiesa, è necessario che le comunità si impegnino a trovare soluzioni. Con realismo è necessario guardare a quello che si può fare per tamponare le dinamiche sociali che seguono un loro corso (secondo alcuni sarebbero le dinamiche della modernità), senza illudersi di cambiare stili di vita che sono sempre più diffusi. Qualsiasi impegno in questa direzione è destinato al fallimento. È invece necessario pensare all’organizzazione di alcuni “mondi possibili” diversi da quelli prevalenti, organizzando nelle comunità punti di aggregazione, nei quali gli anziani possano trovare lenimento alla loro dolorosa condizione. Su questa strada si stanno muovendo alcune realtà, che si impegnano a costruire risposte innovative, sperimentazioni-guida al fine di allargare le realizzazioni a numeri più grandi.
Il problema centrale è ridare agli anziani soli un mondo vitale diverso da quello dove soffrono; è necessario costruire attorno alla loro esistenza sistemi protettivi, costituiti da luoghi dove possono vivere con gli altri, ricostruendo l’atmosfera delle piccole comunità che il tempo ha cancellato. In questa prospettiva sono state studiate varie forme di ‘cohousing’, luoghi dove gli anziani possono vivere liberamente, con la tranquillità della protezione offerta dalla garanzia di interventi celeri e accurati in caso di bisogno, e con l’impegno di condividere qualche ora della settimana con gli altri inquilini dello stesso edificio. Inoltre, è sempre attiva una supervisione da parte di operatori sociali, che si preoccupano di accompagnare gli abitanti, fornendo risposte alle loro esigenze e facilitando l’avvio di relazioni. In questi luoghi l’anziano solo si sente più tranquillo, perché protetto sul piano della salute e della sicurezza fisica; anche la costruzione di relazioni con i vicini permette il ritorno ad una “vita normale”, come nel passato.
Il progetto di cohousing si fonda sulla predisposizione di appartamenti adatti per dimensione al numero degli abitanti; devono essere dignitosi e non assomigliare ad una Rsa. Non devono essere costruiti in luoghi isolati, ma in zone della città o del paese dove c’è vita, con negozi, bar e altri luoghi di relazione. Inoltre, è necessario che i candidati al cohousing vengano scelti in base alla loro espressa volontà di ricostruire quelle relazioni che non sono state oggettivamente più possibili nel vecchio luogo di vita, ma alle quali l’anziano aspirerebbe. In altre parole, è importante evitare di ospitare persone che non sono disponibili ad aprirsi, a parlare con gli altri, a spendere del tempo, ad esempio, per giocare a carte con i coinquilini. Inoltre, è necessario preparare adeguatamente gli operatori, che non devono essere delegati a funzioni assistenziali ma a creare comunità tra gli ospiti, essendo in grado di capire le tendenze, la cultura, i desideri di ognuno. Ovviamente è necessario che l’operatore conosca anche le modalità per rispondere adeguatamente alle esigenze degli inquilini come, ad esempio, il supporto per organizzare delle visite mediche. Infine, in alcune esperienze si assicura agli inquilini il passaggio privo di problemi ad una Rsa, qualora le condizioni di salute impedissero di continuare a rimanere nel proprio appartamento. Agli operatori, quando è possibile, vanno associati gruppi di volontariato con il compito di rendere vivi i luoghi del cohousing con interventi sereni e non invasivi.
Quanto descritto è stato realizzato in alcune realtà, in altre è stato programmato. È necessario porsi di fronte al lavoro compiuto con attenzione, non per criticare il modello, ma per cercarne il continuo miglioramento, in particolare leggendo e valutando l’esperienza degli anziani ospiti e le loro preferenze. I modelli rigidi di cohousing non funzionano se vogliono davvero essere un luogo ‘possibile’ e ‘buono’ per la vita di molti nostri concittadini.
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