Nelle Residenze sanitarie assistite, la risposta delle istituzioni italiane al contenimento del Covid-19 nella prima fase della pandemia è stata lenta, spesso inadeguata, e ha configurato delle vere e proprie forme di violazione dei diritti umani. Da una lunga e complessa ricerca condotta da Amnesty International Italia è nato primo rapporto sul tema, Abbandonati, realizzato attraverso una serie di interviste rivolte a familiari di persone decedute o ancora residenti in struttura, personale dirigenziale, operatori sanitari e membri di associazioni di rappresentanza delle categorie professionali del settore.
«Amnesty è nota per occuparsi di diritti civili e politici, ma negli ultimi anni sta seguendo anche quelli economici e sociali e quindi anche il diritto alla salute – ha spiegato a Spazio50 Debora Del Pistoia, campaigner di Amnesty International Italia e fra i curatori del Rapporto – perciò nel 2020, quando è stato evidente che la pandemia aveva colpito bruscamente Paesi europei dove forse ci si era concentrati di meno, abbiamo deciso di dedicare la nostra attenzione sulle strutture socioassistenziali, perché è emerso con chiarezza che proprio in questi luoghi da tutelare in particolar modo erano stati messi in discussione i diritti fondamentali alla vita, alla salute, alla non discriminazione, a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, e al rispetto alla vita privata e familiare».
Il rapporto si è focalizzato su tre regioni, emblematiche per numero di contagi e vittime riscontrate durante la prima ondata, sia in generale sia fra la popolazione anziana presente all’interno delle Rsa: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.
In Lombardia, considerando il periodo compreso fra gennaio e maggio, i decessi totali per Covid-19 sono stati oltre 16 mila, dei quali ben 3.139 nelle residenze assistite (dati Istat), in pratica una persona su cinque. In Emilia Romagna il 25% delle 4.081 vittime del Covid, registrate entro il 3 giugno scorso, ha riguardato persone che vivevano nelle Rsa (1032); in Veneto, dove sono disponibili dati più recenti e completi rispetto alle altre due regioni, le vittime di Covid residenti nelle strutture socioassistenziali assistite nel periodo compreso tra febbraio e novembre sono 1.120, su un totale di 2.642, pari al 24% del totale regionale.
«Abbiamo anche analizzato due casi studio in particolare – spiega Debora Del Pistoia – e si tratta di Bergamo, che ha avuto un tasso di mortalità del 702% nelle Rsa, e Milano, che si è attestata al 270%, da quanto è emerso incrociando i dati Istat e Ats Città metropolitana, dal primo marzo al 30 aprile. E se teniamo conto che nelle Rsa i tamponi sono iniziati molto più tardi rispetto ad esempio agli ospedali, e che il dato non era disaggregato fino alla fine di maggio, è facile intuire quanto questi, seppure elevatissimi, siano numeri sottostimati».
Un capitolo del Rapporto è stato poi dedicato al contesto italiano, perché a fronte di una popolazione con la percentuale di senior più alta d’Europa, ci si scontra con uno dei livelli più bassi di disponibilità di posti letto in strutture socioassistenziali assistite: 18,6 per mille, contro la media europea di 43,8. L’Italia sconta anche una distribuzione disomogenea di strutture, concentrate soprattutto al Nord, e nonostante questo, anche regioni come la Lombardia, con un migliore rapporto tra popolazione anziana e posti letto, registrano annualmente liste d’attesa di 25 mila potenziali nuovi utenti. Nelle Rsa esistenti, senza significative differenze tra strutture pubbliche e private, sono state evidenziate criticità strutturali già presenti prima della pandemia: uno dei problemi è la cronica carenza di personale che a tutt’oggi resta irrisolto. In particolare in Lombardia ed Emilia Romagna è frequente il ricorso a liberi professionisti e somministrati, che includono lavoratori delle cooperative e interinali, spesso soggetti a condizioni contrattuali al ribasso e che non garantiscono adeguate condizioni di lavoro.
Anche questa mancanza endemica di personale, oggi ancora più gravato da nuove mansioni, finisce con l’incidere sulla qualità di vita degli ospiti, che dalla prima fase della pandemia hanno subito una condizione di isolamento con il blocco alle visite dei familiari, in grado di contribuire alla cura della persona e al suo benessere psicofisico. Amnesty rileva che, nonostante le buone pratiche messe in campo da alcune strutture per favorire la ripresa degli incontri con il mondo esterno, nella maggior parte delle realtà sia stato ritenuto più sicuro mantenere una politica di chiusura, e solo in pochi abbiano utilizzato ad esempio i tamponi rapidi come strumento finalizzato alla riapertura in sicurezza; con un conseguente impatto negativo sulla salute delle persone, in particolare quelle affette da deficit cognitivi e motori.
Da ciò la forte raccomandazione, da parte dell’organizzazione alle autorità, di fare in modo che le strutture assicurino la comunicazione con le famiglie, e che le linee guida per gli accessi mettano al centro l’interesse degli ospiti.
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