Mi è capitato una sera, ero a cena, con amici, tutti più giovani di me, anche se non “giovani”. Si parlava, come capita sempre più spesso, dell’età e della bellezza, del fascino e dell’attrazione sessuale. Si divideva, inconsciamente, il mondo, in vincenti e perdenti. Vincenti erano i giovani, sempre, qualunque fossero le loro aspirazioni, le loro competenze, i loro talenti.
Perdenti erano i vecchi. Perdenti e tuttavia sempre lì, ingombranti, a togliere spazio ai loro stessi figli. Ad un certo punto, con la vocetta falsamente angosciata, si lamentò di essere vecchia una cinquantenne. Tutti si misero a ridere, perché era ancora piuttosto bella. A un tratto mi sono resa conto che, nel corso di tutto quel teatrino, avevo abbassato la testa, come per un improvviso desiderio di scomparire. Mi sono accorta di essere arrossita. Ho provato a buttare un nuovo argomento sul tavolo per farli smettere di parlare dell’età… ero improvvisamente timida. A disagio. In breve: mi sono resa conto che mi vergognavo della mia età.
Perché io ero vecchia davvero e non per civetteria.
È stato terribile.
Ma come? Mi sono detta: “Con tutto quello che hai detto e scritto sul tema, proprio tu, hai paura di essere smascherata e inchiodata al tuo anno di nascita?”.
È squillato, nella mia testa, un campanello di allarme.
La vergogna, questo sentimento così avvilente, non ha risparmiato neanche me.
Mi sono, lo confesso, messa in castigo da sola, nell’angolo, a meditare.
E ho capito che dovevo ritrovare l’orgoglio, esattamente l’opposto della vergogna, l’orgoglio di aver vissuto tanto e di essere ancora come sono. Come siamo. Come è la maggior parte di noi, Grandi Adulti (vi piace l’etichetta di Grandi Adulti? Meglio di senior silver e anziani, no?).
La verità è che la vita ti rema contro, lo sapete questo, no? La ripetizione, le delusioni, la scoperta delle meschinità degli altri, la tentazione di cedere alla meschinità anche tu, di cedere al disamore, alle ambizioni sbagliate; la stessa maledetta lucidità a cui l’aver vissuto a lungo ci condanna sono tutte trappole disseminate lungo l’arco di un’esistenza. Lo sforzo per mantenersi integre, aperte, oneste, capaci di interpretare un tempo che non è il nostro tempo, ma è il tempo in cui viviamo, è enorme. È enorme il coraggio che serve a sbagliare, a chiedere scusa, a rilanciare.
Abbiamo imparato a smussare gli angoli, per rendere possibile l’amicizia, la convivenza, l’amore, ma restiamo capaci di mantenere gli spigoli, quelli che ti fanno chiamare le cose con il loro nome e affrontare gli inevitabili scacchi senza mentire né a te stessa né agli altri? Non sempre, non tutte e tutti. È difficile resistere alla tentazione di rassomigliare all’idea che gli altri hanno di noi, è difficile rifiutare di indossare la livrea dei marginali, di quelli che sono arrivati alla fine della loro carriera di esseri umani e possono perciò soltanto guardare indietro, con rabbia o con nostalgia.
È difficile, ma è necessario.
Se non ci riusciamo, questi venti o trent’anni di vita in più rischiano di diventare faticosi, sovraccarichi di rimpianti.
Inabitabili, aridi, sterili.
Per tante, per troppe donne, sono gli anni della solitudine.
Anni segnati da una sorta di strisciante vergogna, mai spiegata, mai confessata, ma tenace.
Come se aver vissuto a lungo fosse una colpa invece che una forza. Una vergogna invece che una fonte di orgoglio e gioia.
Sì, se volete proprio saperlo, io sono orgogliosa della nostra capacità di amare ancora, nonostante gli anni vissuti e le delusioni collezionate. Sono orgogliosa della nostra capacità di giocare ancora e sempre, di combattere per la pace o per un’idea, di criticare chi combatte per vincere sugli altri e non per migliorare sé stesso. Sono tutte conquiste ardimentose, non certo alla portata di qualsiasi ragazzino o ragazzina. Sono nuovi modi di stare al mondo.
Nuovi, inediti, rivoluzionari.
Siamo la prima generazione che, dopo i fatidici 65 anni, ha ancora una vita davanti.
Siamo una generazione di esploratori.
Lo siamo sempre stati.
Vorremmo davvero aver vissuto di meno?
La gioventù è veramente il Paese dei Balocchi in cui tutti vorremmo vivere in eterno? A me era già venuta a noia a vent’anni. Volevo essere grande. Vecchia no, grande. La vecchiaia mi faceva paura, come a tutti, ma anche curiosità. La temevo e nello stesso tempo la sognavo. Ma non avrei mai immaginato che sarebbe stata così… creativa, aperta, ricca di intelligenza e di desideri.
Ho scritto, anni fa, un romanzo che si intitola Il terzo tempo.
L’ho dedicato così, nella prima pagina:
“A tutte le donne e a tutti gli uomini che hanno paura di invecchiare, come è normale. Ma anche curiosità. Anche voglia. Alle più libere. Ai più originali”.
Aggiungo: a tutte le persone disposte a dichiarare guerra agli stereotipi che avvelenano le nostre vite.
A qualsiasi età. Perché sono stupidi.
Perché riducono la nostra libertà.
E fanno male.
Buona vecchiaia a tutte, a tutti.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
© Riproduzione riservata