Mi è stato chiesto dalla Direzione della rivista di dedicare la tradizionale rubrica “Anni possibili” al tragico incidente della casa di riposo di Milano, evento che ha pesantemente colpito la nostra convinzione di essere in grado, come società, di assicurare una “vita buona” alle persone anziane.
Perché “anni possibili”? Il collegamento tra quanto scrivo e il titolo della rubrica è dato dal fatto che ritengo la vita nelle residenze per anziani un “anno (o anni) possibili” in alternativa alla propria abitazione, quando non vi sono più le minime condizioni per continuare a vivere nell’ambiente famigliare.
Di seguito, quindi, elenco i motivi che presumibilmente hanno indotto le sei persone scomparse nel fuoco e nel fumo ad accedere alla Casa per Coniugi. Erano molto ammalate e quindi bisognose di controlli continui sul piano clinico, per lo svolgimento delle attività di ogni giorno, di supporto psicologico perché la famiglia non era più in grado di fornirlo. Molto probabilmente erano persone che avevano trovato un equilibrio nella struttura, il piccolo equilibrio di donne semplici che si erano sistemate nella nuova abitazione; ho letto quanto riferito dal cappellano dell’istituto, per il quale erano persone che stavano vivendo alcuni “anni possibili” nella tranquillità, continuando le consuete pratiche di vita come quelle religiose. Inoltre, erano accudite con generosa competenza da tanti operatori venuti per lo più da lontano, che si occupavano di rendere più facile la loro giornata, nelle sue varie tappe, dal risveglio al cibo e al tempo da trascorrere. Per le ospiti quindi una “vita possibile”, che la comunità avrebbe avuto il dovere preciso di difendere, facendo in modo che potessero continuare a vivere senza una fatica maggiore di quella che già la situazione oggettiva imponeva. Insomma, erano anni resi “possibili” da una comunità in grado di proteggere, aiutare, accompagnare. Però la comunità di Milano ha tradito il suo compito, si è affidata alle risposte burocratiche invece di ridurre concretamente il rischio di morire, perché nessuno si occupava del fuoco, da sempre la grande paura delle convivenze. Di fatto ha dimenticato i propri vecchi… a chi dovrebbero stare a cuore 170 anziani, la gran parte dei quali affetti da demenza? Certo ai loro cari, agli operatori socio-sanitari, a qualche volontario; ma la comunità si doveva occupare del certificato antimafia… come fosse il suo compito principale!
La vicenda di Milano ha anche contribuito a dare fiato a chi non ama i vecchi e li vuole utilizzare per i propri interessi; sono state lanciate ogni genere di critiche alle RSA. Non hanno guardato alle inadempienze specifiche di quella realtà milanese, ma hanno dato giudizi generali e aspecifici, senza rendersi conto che così sottraevano di fatto a tanti anziani un modo per rendere “possibili” un certo numero dei loro anni, quando non si aprivano altre realistiche possibilità di vita. Già negli anni scorsi le critiche senza fondamento hanno fortemente danneggiato il mondo delle RSA. Il danno più grave è stata l’esclusione di fatto dai fondi del PNRR, un’iniezione di denaro che sarebbe stata indispensabile per la vita di molte realtà. Il nostro Paese si trova oggi di fronte ad una crisi che non sarà facile da superare; le RSA sono spesso strutture che avrebbero bisogno di interventi strutturali, per rispondere adeguatamente a esigenze in crescita, costituite da cittadini sempre più anziani e sempre più compromessi sul piano della salute e dell’autonomia. Occorrono innovazioni che dovrebbero essere sperimentate, potendo contare su fondi adeguati. Le RSA sono oggi “mondi possibili”; per conservare questo ruolo hanno però bisogno di un’attenzione colta e generosa da parte delle comunità. Resta un interrogativo: saranno queste o meno in grado di rispondere alla richiesta di fare della strada insieme, perché le comunità hanno bisogno delle RSA e le RSA hanno bisogno delle comunità? Sarà una delle prove più significative dei prossimi anni, per evitare che le nostre comunità vivano come una grave colpa l’essere inadeguate nella difesa dei propri vecchi. Con una diffusa tristezza sociale.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulla demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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