In un futuro prossimo, le macchine saranno in grado di scrivere e pensare meglio degli uomini? C’è chi dice sì e per provarlo ha creato un programma di intelligenza artificiale capace di produrre l’articolo di un giornale. Con risultati strabilianti.
Alexa, l’assistente vocale di Amazon acquista-to da milioni di persone nel mondo, è l’emblema dell’aedo 2.0. Il piccolo cilindro parlante è riuscito in poco tempo a soppiantare quasi tutti i testi scritti, dai vecchi manuali di cucina alle pagine di Wikipedia. Cercate la ricetta del tiramisù? Alexa è pronta a dettarvela rispettando i vostri tempi di esecuzione (la voce si interrompe a ogni fase della preparazione e per procedere basta darle il comando vocale “avanti”). Non vi ricordate la data della presa della Bastiglia? Rivolgete la domanda ad Alexa, che vi risponderà raccontandovi anche nel dettaglio, se lo desiderate, le successive tappe della Rivoluzione francese. Volete sapere quali sono gli effetti collaterali di un medicinale? Alexa ve li elenca, risparmiandovi lo sforzo di decifrare i caratteri lillipuziani dei bugiardini.
Per chi ha attivato la funzione specifica, inoltre, Alexa canta la ninna nanna, racconta una fiaba e dà la buonanotte, augurando “sogni d’oro”. Il cantastorie dei nostri tempi non va in giro per le strade, ma convive con noi nelle nostre case. È un congegno elettronico dalla voce robotica, poliglotta, onnisciente, pronto a rispondere alle nostre domande che, in sostanza, ci invita a stare alla larga dal testo scritto.
Alexa non è la sola a farlo. Gli altri assistenti vocali come Google Home o Siri sono pronti a parlare con noi permettendoci di ottenere le informazioni che desideriamo senza dover più leggere nulla. Che fine farà, a quel punto, la parola scritta? La risposta che emerge dal geniale esperimento di un giornalista americano è inquietante.
Sarà perché scrivere è una vocazione, sarà perché comporre articoli di spessore richiede uno sforzo creativo non indifferente, sarà per questi, o altri motivi, che John Seabrook, rinomato giornalista del New Yorker, non avrebbe mai pensato di poter essere sostituito da un computer. Lui che, come tanti altri suoi colleghi della stessa levatura, sa come manipolare la lingua scritta, piegarla ai propri scopi, selezionare la parola giusta tra mille sinonimi, ha dovuto ricredersi: «A volte la macchina ha un’idea migliore della mia».
Seabrook ha messo alla prova sul New Yorker un programma di intelligenza artificiale capace di prevedere come potrebbe continuare il paragrafo iniziato dal giornalista in carne e ossa.
Nell’articolo del New Yorker si discute, in sostanza, del futuro della parola scritta. Tra gli scenari immaginati dall’autore c’è quello di una società in cui le macchine saranno capaci di scrivere e pensare meglio degli umani (in certi casi, bisogna ammetterlo, non ci vuole molto) e di un’umanità che si esprime solo verbalmente o al massimo con emoticon, la versione moderna degli antichi geroglifici.
Fantascienza? Leggete il testo proposto dal sistema di scrittura e poi ne riparliamo: «Più le macchine faranno affidamento sul linguaggio, maggiore sarà la loro capacità di distorcere la comunicazione e maggiore sarà il rischio per le persone comuni di finire per appartenere a una categoria sociale disumanizzata». Forse il giornalista umano avrebbe usato altri termini, ma su quelle righe non avrebbe alcuna difficoltà a metterci la firma. E chiunque scorresse per intero l’articolo del New Yorker non riuscirebbe a distinguere le frasi frutto della creatività umana da quelle elaborate grazie a sofisticati algoritmi dal computer. Il ritorno all’oralità non sembra un’ipotesi da fantascienza.
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