A 100 anni dalla morte, il grande tenore partenopeo continua a seminare emozioni. Tutti gli eventi in preparazione per festeggiare la sua “voce divina”.
Il 30 dicembre 1901 Enrico Caruso debutta al Teatro San Carlo di Napoli: canta L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Il tenore, già celebre e reduce da esibizioni a Milano e Palermo, Roma e Londra, Osaka e Buenos Aires, Il Cairo e Montecarlo, però non convince, quasi timoroso di calcare il palco più importante della sua città. E anche se il pubblico alla fine chiederà il bis (i fischi che la leggenda tramanda sono un falso storico), il critico più temuto del periodo, il barone Saverio Procida, sul giornale Il Pungolo lo bolla con altre parole: “Io non scorgo ancora nel Caruso l’artista che stia all’altezza cui lo colloca la fama e lo destinerebbe un organo singolarmente dotato”. Pur apprezzato nelle repliche, il tenore se la prese a male e affermò che sarebbe tornato a Napoli «solo per gustare i vermicelli».
E così fu, infatti: tornerà nella città partenopea solamente per consolarsi di sole e spaghettate in seguito all’abbandono della compagna Ada (che, dopo avergli dato due figli, fuggì in Sudamerica con il loro autista e tentò anche di estorcergli denaro) e il 9 giugno 1921, due mesi prima di morire, già gravemente malato. Procida stesso ne scrisse l’epitaffio sull’edizione straordinaria de Il Mattino, che titolava “La voce divina si è spenta”: “Tutto istinto e intuito, tutto estemporaneità di senzazione (sic), il tenore che non ebbe emuli nel suo tempo e poté per antonomasia accettare per lui soltanto la lettera maiuscola della chiave in cui cantò, fu il prototipo del tenore moderno. Egli incarnò il realismo musicale, fu il vocabolario della nuova lingua”.
Da figlio di operaio alle tavole del teatro
Caruso soppiantò il belcanto stilizzato dell’Ottocento e con quella voce prorompente, messa al servizio di un repertorio che da Giuseppe Verdi passava al nascente verismo, farà la storia. Figlio di un operaio di fonderia (a 10 anni iniziò a portarlo a lavorare con sé) e di una donna delle pulizie, nacque nel piccolo appartamento in via Santi Giovanni e Paolo da poco diventato museo, con oggetti, cartoline, disegni, foto, locandine, dischi autografati, che lo ricordano, per lo più “prestati” dall’Enrico Caruso Museum di New York. Scoprì prima il talento per il disegno che quello per la musica: le sue caricature giocose e irridenti furono un passatempo per tutta la vita, spesso anche rivolte a se stesso. Iniziò a cantare nel coro della chiesa, poi in piccoli spettacoli, nei caffè, nei lidi, ai matrimoni, funerali, canzoni in dialetto e romanze, finché non si applicò a studi regolari con il maestro Guglielmo Vergine, che lo portarono a debuttare al teatro Nuovo nel 1895, a 22 anni. Ruolo Francesco ne L’amico Francesco di Mario Morelli, quattro rappresentazioni previste, ridotte a due causa mancanza di pubblico.
L’incontro con Puccini e la nascita della “carusomania”
La svolta avviene a Livorno, durante la stagione estiva di due anni dopo. Lo ingaggiano perché non hanno molti soldi per il tenore (costano soprattutto la soprano Ada Botti Giachetti, di cui Caruso si innamora, e il baritono Antonio Pini Corsi) e lui si era fatto notare a Caserta, Salerno, al Bellini, al Mercadante. È un trionfo, nasce la “carusomania”, Giacomo Puccini lo riceve e ne rimane affascinato, tanto che finirà per scrivere La fanciulla del West pensando alla sua voce. La carriera è folgorante, i teatri del mondo se lo contendono a suon di cachet sempre più alti. La sua voce si apre ampia e sensuale, calda e piena di risonanze, lontana dalla vecchia tradizione dei castrati che ancora lasciava le sue tracce e dalla ricerca continua del ghirigoro, con toni scuri (che progrediranno nel tempo), dolcezza del timbro, fraseggio inimitabile e intense vibrazioni. È il primo interprete della lirica moderna, nessuno ha dubbi. Si susseguono le standing ovation e persino le “serate d’onore per il cantante”, che non si usavano più dal Settecento.
Inevitabile arriva la proposta del Metropolitan di New York, “il” teatro del Nuovo Continente. L’ingaggio è per il Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi, ma quella del 23 novembre 1903 fu solo la prima di 607 (c’è chi afferma furono 863) recite nella Grande Mela. “L’italiano d’America”, come fu subito definito, propose un repertorio vastissimo (61 le opere interpretate in 26 anni di carriera, soprattutto italiane e francesi), diventando l’idolo delle folle. Per Enrico, celebre come il solo Rodolfo Valentino, diventa quasi una condanna. Scrisse: “Quand’ero un ignoto, cantavo, a parte la modestia, come un usignuolo, così, pel gusto di cantare, senza preoccupazioni, con i nervi tranquilli e il capo scarico. Ora invece, oppresso dall’incubo d’una reputazione che non può accrescersi, ma che la minima deficienza vocale può compromettere, canto, per così dire, coi nervi. Ed è per questo ch’io sono spesso il più infelice degli uomini”.
Un fenomeno discografico: il primo a vendere oltre un milione di dischi
Chi non poteva andare a teatro comprava i suoi dischi. Incise circa 250 facciate di 78 giri e fu il primo in assoluto a vendere oltre un milione di copie con l’aria Vesti la giubba dai Pagliacci (una delle prime registrazioni a guadagnare nel 1975 il Grammy Hall of Fame Award riservato alle più grandi di sempre, assegnato di nuovo a Caruso nel 1993 per Celeste Aida). Ed era un periodo in cui pochi suoi colleghi si facevano coinvolgere dal nuovo mezzo di comunicazione, perché le tecniche di allora non permettevano registrazioni superiori ai quattro minuti e mezzo. Celeberrima anche la registrazione di Core ‘ngrato, una delle 22 canzoni napoletane che incise, scritta appositamente per lui dopo l’addio di Ada (uno degli autori, Salvatore Cardillo, la considerava “una porcheriola”).
La fine di un mito: fatale fu il palcoscenico
Un altro pregio di Caruso fu l’intensità delle sue interpretazioni, tanto che arrivò a sanguinare per essersi morso un dito durante i Pagliacci oppure baciò sulla bocca (inaudito per l’epoca) la soprano Lina Cavalieri in Fedora. E qualcuno ipotizza che la pleurite che lo uccise fu causata dall’impegno e la fatica che richiese (dopo un’estate massacrante per numero di serate, tra cui 12 consecutive all’Avana a 10mila dollari, di allora, a esibizione) l’abbattere le grandi colonne in cartone pesante della scenografia di Sansone e Dalila. In realtà fu l’incapacità dei medici americani nel riconoscerla subito, accelerata dalla sua voglia di essere in scena, a provocare i progressivi peggioramenti e le lesioni del miocardio, del pericardio e dei reni che furono fatali. La sua ultima recita, al Metropolitan il 24 dicembre 1920, la fece con il busto fasciato come a una mummia. Da tempo sputava sangue e riuscì a finire solo grazie all’aiuto del soprano Florence Easton che lo abbracciò di continuo, tenendo le mani ferme sulle ultime due costole, affinché potesse usare il diaframma e i polmoni. Al termine piangeva: per le conoscenze di inizio secolo la sua salute era ormai compromessa.
Sopravvisse fino al 2 agosto, diversi interventi, cure di vario genere e tentativi inutili, intervallati da servizi fotografici, interviste, persino audizioni, oltre al ritorno a Sorrento e a Napoli (al porto di New York due dozzine di agenti scortarono lui, la giovane moglie Dorothy, la figlioletta Gloria e le loro 72 valigie e 46 bauli, per proteggerli dalla folla che voleva salutare la “star dei due mondi”). Un’altra folla, di circa centomila persone, lo salutò ai funerali in piazza Plebiscito. Un grazie al mito che era tornato a morire a casa, che spesso aveva cantato per beneficenza nonostante i compensi astronomici ottenuti dai teatri di tutto il mondo, dove aveva continuato a esibirsi anche dopo il trasferimento in America, che aveva portato la canzone partenopea nel mondo. Oltre ad aver rivoluzionato per sempre la lirica.
Gli eventi
In occasione del centenario – i cui festeggiamenti continueranno fino al 2023 per il 150° della nascita, – sono state preventivate numerose iniziative, soprattutto concerti e conferenze. Ricordiamo il Gala in omaggio a Caruso, che si terrà al San Carlo di Napoli, il 19 settembre con i tenori Francesco Meli, Francesco Demuro e Freddie De Tommaso; la verdiana Messa da Requiem del 28, 29 e 31 ottobre dedicata al Maestro dall’Orchestra Verdi all’Auditorium Cariplo di Milano; a ottobre alla Scala le giornate di studio sulla figura del grande tenore e dei suoi rapporti con il Teatro alla Scala e Arturo Toscanini; il 45° Premio Caruso, che verrà attribuito a tutti i tenori vincitori delle precedenti edizioni, il 18 settembre, e le giornate di studi Enrico Caruso a cento anni dalla scomparsa, il 29 e 30 ottobre, alla Villa Caruso di Lastra a Signa, la sua magnifica residenza italiana vicino Firenze, da tempo diventata museo; il concerto novembrino a Piedimonte Matese (CE), che diede i natali ai suoi genitori. Inoltre segnaliamo la mostra Il talento di Caruso, dedicata ai suoi disegni e alle caricature, dal 21 novembre all’8 dicembre presso l’Antico Ospedale di Sant’Antonio a Lastra a Signa.
(Foto Apertura: Novikov Aleksey/Shutterstock.com)
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