Per qualcuno il cambiamento climatico è un’opportunità. Negli Stati Uniti crescono le società appaltatrici in cerca di luoghi distrutti da disastri ambientali, per ricostruirli e guadagnarsi polizze assicurative e contratti governativi
Ogni primavera appassionati da tutto il mondo si danno appuntamento nelle Great Planes statunitensi per dare vita alla “caccia” più bizzarra che l’uomo possa affrontare.
A bordo di furgoni dotati dei più sofisticati sistemi di sicurezza e di strumentazioni all’avanguardia, gli storm chasers – i cacciatori di tempeste – si spingono fin dove nessun essere umano dotato di buon senso arriverebbe.
I “cacciatori di tempeste” non scappano quando vedono un tornado: lo seguono. Qui, dall’altra parte dell’oceano, viene da chiedersi cosa possa spingere un essere umano a voler vedere da vicino le tempeste più pericolose che la natura ci possa lanciare contro.
C’è poi l’altra faccia della medaglia di questi uragani: i disastri che provocano. Una vera e propria apocalisse, con edifici, scuole, università, infrastrutture pubbliche completamente distrutti.
Uragani, tifoni, alluvioni, ormai sempre più ravvicinati nel tempo, hanno inciso anche sulle casse dello Stato. I fenomeni meteo estremi che hanno colpito gli Stati Uniti nel 2022, hanno causato almeno 165 miliardi di dollari di danni, secondo un rapporto federale che sottolinea l’effetto amplificante del cambiamento climatico. L’uragano Ian, che ha devastato la Florida alla fine di settembre, è stato di gran lunga l’evento più costoso del 2022, causando danni per 112,9 miliardi di dollari.
Una volta passati, gli uragani, lasciano solo macerie, e oltre ai danni, c’è l’economia della ricostruzione da quantificare, ci sono infrastrutture e abitazioni da ricostruire, in condizioni a dir poco estreme. Lavorare per la ricostruzione di una zona colpita da un tornado, nella maggior parte dei casi, vuol dire non avere accesso ad acqua potabile ed elettricità.
In sintesi, si tratta di un lavoro rischioso in condizioni di estremo pericolo. A farlo oggi negli Stati Uniti sono gli immigrati, provenienti perlopiù da Paesi resi inabitabili dal clima impazzito. Come per un ingrato scherzo del destino, queste persone si ritrovano a riparare i danni nel Paese maggiormente responsabile di emissioni di gas serra, rischiando talvolta la propria vita. Un esempio piuttosto inequivocabile di (in) giustizia climatica.
Si tratta di una nuova forza lavoro, composta in gran parte da immigrati, molti privi di documenti, che seguono i disastri climatici in tutto il Paese, come gli agricoltori seguono i raccolti, aiutando le comunità a ricostruire le proprie città. Affrontano danni inflitti da uragani, incendi, inondazioni e tornado, rimuovendo muffa, ripulendo pozze di fanghi tossici da università, fabbriche e aeroporti, ovunque vi sia bisogno. In cambio della loro manodopera, ricevono vitto e alloggio, molto più raramente uno stipendio.
Qualcuno ha iniziato a chiamarli “lavoratori della resilienza” perché da “roofer” occasionali, ingaggiati per riparare danni perlopiù modesti come aggiustare tetti a livello locale, ormai sono diventati “cacciatori di disastri” a livello nazionale. Una serie di interviste contenute in un documento dall’emblematico titolo “Una tassonomia dei lavori da fine del mondo”, evidenzia come in tutto il Paese vi siano collegamenti tra il cambiamento climatico e lo sfruttamento del lavoro.
Se in America il riconoscimento dell’emergenza climatica è stato piuttosto tardivo, la maggior parte degli americani sa poco e niente della crisi del lavoro che nasconde.
Una crisi che non riguarda certo le grandi società appaltatrici. Negli anni, su questo tipo di emergenza si è costruito un vero e proprio business. Nel 2020 le compagnie di assicurazioni hanno pagato almeno settantasei miliardi di dollari per le riparazioni climatiche e il governo più di cento miliardi. Con un tale afflusso di denaro, le aziende hanno iniziato a inseguire eventi climatici estremi in tutto il Paese, contendendosi polizze assicurative e contratti governativi.
Alcuni paragonano i “cacciatori di disastri” ai primi minatori di carbone: sapevano che stavano respirando sostanze dannose, ma non erano sicuri di cosa fossero. E oggi, come allora, nessuno ha ancora agito per assicurargli una qualche forma di protezione e di tutela legale.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
© Riproduzione riservata