Sono passati 45 anni dal 9 maggio 1978, il giorno in cui l’Italia ricevette impotente e ferita la notizia di due cadaveri che cambiarono per sempre la storia del Paese: quello di Aldo Moro e quello di Peppino Impastato.
9 maggio 1978: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro
«Adempiamo alle ultime volontà del Presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro». Si concludeva così la telefonata fatta dal brigatista Valerio Morucci a casa del professor Francesco Tritto, assistente di Moro, alle 12:13 di quella mattina. Quei 55 giorni iniziati in via Fani terminarono quando forze dell’ordine, ambulanze, politici e giornalisti si riversarono in Via Caetani, al centro di Roma. Un luogo simbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscure, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano, e piazza del Gesù, dov’era quella della Democrazia Cristiana. L’immagine di quella Renault 4 rossa con il bagagliaio aperto divenne ben presto il tragico simbolo di un lutto nazionale.
La reazione del Paese alla morte di Aldo Moro
In quei 55 giorni si erano susseguiti appelli per un’apertura al dialogo con i brigatisti da parte della famiglia, del Papa e dell’opinione pubblica. Ma erano giunte anche lettere dall’onorevole che, durante la prigionia, chiedeva ai membri di partito di avviare una trattativa per liberarlo. Dal giorno del suo rapimento a quello della sua scomparsa gli scioperi e le manifestazioni si susseguirono nelle principali città italiane. Anche il giorno della commemorazione funebre, organizzata per il 13 maggio, la basilica di San Giovanni in Laterano a Roma era gremita e molti italiani si stringevano simbolicamente davanti alle immagini trasmesse in tv. La cerimonia, durante la quale Papa Paolo VI pronunciò un’omelia per l’amico assassinato, si svolse tuttavia senza il feretro di Moro per esplicito volere della famiglia, che non aveva partecipato ritenendo lo Stato italiano avesse fatto troppo poco per salvare la sua vita.
9 maggio 1978: la morte di Peppino Impastato a Cinisi
Mentre l’Italia era sotto shock, a Cinisi, piccolo paesino della Sicilia a 30 chilometri da Palermo, moriva il giornalista Giuseppe Impastato, detto Peppino. Primo figlio di Luigi Impastato, appartenente ad un gruppo di Cosa Nostra, e Felicia Bartolotta, che aveva cercato di evitare il matrimonio quando aveva scoperto i rapporti del futuro marito con la mafia. In quell’anno, il 1978, Peppino si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali nonostante le minacce e le continue pressioni della comunità locale. Ma non fece in tempo a sapere l’esito delle votazioni perché venne assassinato la notte del 9 maggio, a campagna elettorale ancora in corso, su commissione di Gaetano Badalamenti. Venne colpito o tramortito per poi essere portato sui binari della ferrovia Palermo – Trapani con una carica di tritolo sotto il corpo. Un bieco tentativo di far apparire la sua morte come un attentato fallito o un suicidio.
La morte di Peppino Impastato e l’impegno della famiglia
Stampa, forze dell’ordine e magistratura, infatti, inizialmente affermarono che stesse architettando un attentato nel quale lui stesso sarebbe rimasto ucciso. Poi iniziarono a parlare di suicidio dopo la scoperta di una lettera in casa della zia, che in realtà non rivelava alcun intento suicida. Il delitto, però, passò inizialmente inosservato a causa dello shock dovuto al ritrovamento del corpo di Moro.
La matrice mafiosa del delitto venne individuata più tardi anche grazie all’attività di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e di Felicia Bartolotta che ruppero pubblicamente con la parentela mafiosa e resero possibile l’apertura dell’inchiesta giudiziaria. Le indagini si conclusero solo nel 2002 con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004. Della lotta alla mafia di Peppino resta l’eredità raccolta già dopo la sua morte quando la lista di Democrazia Proletaria ottenne 260 voti e un seggio. Gli elettori decisero, infatti, simbolicamente di dare il loro voto alle sue idee e al suo coraggio.
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